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Femminicidio: la dipendenza negata

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Le radici di una ferocia apparentemente incomprensibile.

Quasi ogni giorno c’è una donna che muore, uccisa da un uomo che spesso è il suo ex-marito, convivente, fidanzato. A volte è uccisa dal padre, a causa del rifiuto di un matrimonio combinato o di scelte di vita non condivise.
Sono quindi quei contesti familiari e affettivi che dovrebbero garantire protezione e sicurezza a infliggere, invece, violenza e morte.
Il fenomeno del femminicidio, inquietante e allarmante, esige risposte sollecite e adeguate.
Ma perché gli uomini uccidono?
Numerosi fattori di tipo ideologico, sociale e psicologico favoriscono lo sviluppo di tale violenza. Spesso una cultura mortificante e perversa assegna alla donna il ruolo della sopportazione. Se delude, è legittimo punirla. In un tale contesto, quando la donna vuole emanciparsi e affermarsi come individuo indipendente, gli uomini si sentono minacciati nell’autostima e nella virilità. Essi non possono fare a meno di volere la donna come “cosa propria”.
Da un punto di vista psicologico, è opportuno evidenziare un aspetto fondamentale della personalità del femminicida: quello della dipendenza negata.
Cosa si intende con tale concetto? Si intende che egli non è stato in grado di dipendere da un altro per elaborare quei sentimenti di vuoto, di solitudine e di fragilità che caratterizzano la vita di tutti gli esseri umani, perché questi sentimenti sono stati inconsciamente negati. Non avendo sperimentato nella sua infanzia dei legami sicuri di accudimento e cura, non è riuscito a sviluppare un sentimento maturo di rapporto con l’altro. Oppure, è cresciuto in una famiglia violenta, spesso egli stesso vittima di abusi, e ha appreso che la relazione va gestita all’insegna del controllo aggressivo, piuttosto che del rispetto dell’altro.
Naturalmente questi pochi accenni non hanno la pretesa di esaurire, in questo breve spazio, una tematica così complessa, che andrebbe compiutamente analizzata caso per caso. Precisando anche che tale analisi non va certo intesa come giustificazione di questi crimini o come strumento per ‘discolpare’ i colpevoli. La persona matura dunque, non ha negato tale dipendenza dagli altri nel suo percorso di crescita: l’ha accettata e fatta propria, e in tale modo è stata capace di sviluppare forme adulte di intimità e di relazione.
La negazione della dipendenza, invece, non elimina il bisogno di relazione, che anzi permane ingigantito proprio perché non riconosciuto; ma – questo è l’aspetto centrale del disagio – esso viene negato adottando un atteggiamento onnipotente e di controllo ostinato, rabbioso e sadico dell’altro. Nei casi estremi, come aveva evidenziato la psicoanalista Melanie Klein, la negazione della dipendenza si accompagna a un rapporto maniacale con l’altro all’insegna dei sentimenti di dominio, di trionfo e di disprezzo.
Si tratta, com’è evidente, di personalità fortemente disturbate da un narcisismo profondo, per cui l’altro non è più visto come persona con i propri bisogni, ma diventa un “oggetto” per colmare il vuoto e verso il quale si avanzano pretese assolute.
Quando un uomo uccide allora la propria compagna mostra un funzionamento relazionale di tipo fortemente regredito; vive ancora, cioè, in una dimensione di dipendenza dall’altro estrema (come un bambino molto piccolo verso la propria madre), non può tollerarne l’assenza, pena un’angoscia profonda di solitudine e fragilità. La negazione della dipendenza e il bisogno di controllo sull’altro producono forme estreme di violenza.
L’allontanamento dell’altro è vissuto come un affronto da punire. Spesso gli omicidi scattano quando la donna interrompe la relazione. A omicidio avvenuto, la sensazione del vuoto negato riemerge prepotentemente, inducendo, a volte, questi uomini al suicidio. Il suicidio può rappresentare inoltre un modo per proseguire, paradossalmente, l’esclusività della relazione.
Si può ipotizzare una prevenzione?
Possono giovare percorsi di educazione alle emozioni anche in età adulta; percorsi che aiutino l’accettazione della propria fragilità e dipendenza fino al riconoscimento consapevole della violenza; il rafforzamento dei centri anti-violenza; una cultura a favore della donna; politiche di pari opportunità.
Le donne devono ricordare che il femminicidio solo raramente è frutto di un momento d’ira incontrollato; esse devono imparare a riconoscere i segnali e a non sottovalutare nessun gesto violento. E che nessun amore malato vale la vita. •
Marilena Serio, Docente di psicologia ITM, Fermo

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