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Il terremoto secondo Matteo

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Un francescano, biblista,  analizza il significato del sisma nel primo Vangelo

Tra qualche giorno verrà nuovamente aperto nelle chiese il libro del vangelo secondo Matteo, la cui lettura liturgica riprenderà nel prossimo tempo di Avvento. Il vangelo secondo Matteo è l’unico, tra quelli canonici, a riferire di quattro eventi sismici che sarebbero accaduti al tempo di Gesù. Gesù stesso, in questo vangelo, poi, parla di un terremoto che accadrà in un certo momento della storia.
Secondo Mt 8,24, mentre Gesù si trovava al largo del mare di Galilea, «vi fu un grande terremoto nel mare, al punto che la barca era coperta dalle onde» (traduzione dalla Nuova versione della Bibbia dai Testi Antichi, San Paolo 2013, 155). Gesù continua a dormire, ma i discepoli lo svegliano, terrorizzati, e allora questi rimprovera i venti e il mare ed ecco una grande bonaccia. Nella versione ufficiale della CEI fino al 2008 si leggeva che nel mare si scatenò una «violenta tempesta», ma la nuova traduzione invece migliora e parla di uno «sconvolgimento». Il greco qui è seismós, “scossa”, “terremoto”, e indicherebbe un vero e proprio sisma nel lago di Tiberiade (un “maremoto”? anche san Girolamo nella sua Vulgatatraduceva «motus magnus factus est in mari»). L’evangelista Matteo, infatti, rispetto agli altri, mostra un grande interesse per i terremoti, ed è proprio nel suo libro che il termine fa registrare la più alta occorrenza dei termini legati a questo campo semantico: il verbo seíō («scuotere», «agitare»), in Mt 21,10; 27,51; 28,4, e il sostantivo seismós, in Mt 8,24 e 27,54.
Il caso del primo terremoto di Mt 8,24 riguarda un vero e proprio “miracolo di salvataggio”, differente cioè da quegli altri miracoli che comportano la guarigione di malati, o la rianimazione di cadaveri, o esorcismi, e simile invece a quelli che saranno narrati allorquando Gesù, nei capitoli 14–15 dello stesso vangelo, darà da mangiare alle folle e camminerà sulle acque dello stesso lago di Galilea.
Non si tratta però tanto, secondo una classificazione possibile, di un miracolo sulla natura, ma piuttosto una epifania del divino. Il mare ha nella Bibbia un forte richiamo simbolico e Gesù viene descritto come colui che domina su di esso, sul sisma che l’ha agitato e sui venti che ne sono derivati: rimproverando il mare – allo stesso modo in cui rimprovererà un demonio in Mt 17,18 – e ottenendone il silenzio, non solo Gesù potrà da lì a poco raccontare le parabole lungo le rive di quel lago (Mt 13), ma mostrerà di essere più grande degli spiriti che, si credeva, erano presenti sotto la sua superficie.
Del secondo terremoto parla Mt 21,10 quando descrive l’ingresso solenne di Gesù nella città di Gerusalemme, al termine del suo pellegrinaggio pasquale. Nella traduzione CEI si legge che «mentre Gesù entrava in Gerusalemme tutta la città fu presa da agitazione», ma l’evangelista usa qui il verbo seíō, col quale poi più avanti descriverà il sisma alla morte di Gesù. Alla lettera, perciò, il testo dice che «entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu scossa (come) da un terremoto». Di terremoto si parla anche nel testo tratto dal profeta Zaccaria che fa da sfondo all’intera scena matteana: «In quel giorno i suoi piedi (di Dio) si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il monte degli Ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l’altra verso mezzogiorno. Allora voi fuggirete attraverso la valle fra i monti, poiché la nuova valle fra i monti giungerà fino ad Asal; voi fuggirete come quando fuggiste durante il terremoto, al tempo di Ozia, re di Giuda. Verrà allora il Signore, mio Dio, e con lui tutti i suoi santi» (Zc 14,4-5). Il terremoto di cui parla il profeta – ricordato anche dallo storico Flavio Giuseppe nelle sue Antichità Giudaiche (9,225) e da un altro profeta, Amos (1,1) – descriveva però l’intervento di Dio che veniva a salvare Gerusalemme («non vi sarà più sterminio e Gerusalemme se ne starà tranquilla e sicura»; Zc 14,11). Come si può già intuire, il terremoto che scuote la città di Gerusalemme all’ingresso del Messia è un segno della venuta salvifica di Dio, e deve essere inteso non in senso letterale, ma figurato, simbolico.
Il terzo terremoto di cui si legge nel vangelo di Matteo è uno dei segni che accompagnano la morte del Messia. In Mt 27,51-54 sono brevemente narrati tre prodigi: lo squarciarsi del velo del tempio, il terremoto e la risurrezione dei morti conseguente all’aprirsi delle tombe. Sono questi segni – col timore che ne deriva – che portano il centurione e le guardie a riconoscere in Gesù il «Figlio di Dio», diversamente da Marco che conosce solo il primo prodigio e, soprattutto, vede le parole del soldato come conseguenza del modo in cui Gesù muore («vistolo spirare gridando in quel modo, disse…»: Mc 15,39). Tutti e tre questi prodigi meritano un’attenzione particolare, perché di forte significato simbolico e teologico, ma gli ultimi due sono esclusivamente matteani. Scrivendo che alla morte di Gesù ha avuto luogo un terremoto l’evangelista sembra dire che il giorno del Signore è arrivato: i profeti ne avevano predetto l’immanente accadere come giudizio di Dio, e ora questo giudizio si compie, ma nella misericordia che scaturisce dalla morte del Figlio. Se il segno del velo spezzato e del terremoto possono essere visti positivamente come l’inizio di un’era di grazia, di cui la lacerazione del velo è segno, il terremoto poteva forse essere anche compreso – in conformità con le credenze poi attestate nelle fonti rabbiniche – in senso più preoccupante, perché appunto si riteneva che la morte del giusto (come viene chiamato Gesù in Mt 27,19) avrebbe avuto delle conseguenze tragiche per tutto il mondo (cfr. p. es. Talmud babilonese, Sanhedrin 113b: «Quando il giusto perisce, entra il male nel mondo»).
Un apocrifo molto antico, il Vangelo di Pietro (ritenuto da alcuni, a nostro avviso in modo non corretto, addirittura più antico dei vangeli canonici), sembra proprio sottolineare questo aspetto. Lì si racconta di un terremoto, ma che ha luogo al momento in cui i chiodi sono estratti dalle mani di Gesù: «E allora estrassero i chiodi dalle mani del Signore e lo deposero a terra. E tutta la terra tremò e ci fu gran terrore» (EvPt 21). Siamo sulla stessa linea di pensiero che ora, concludendo, spiegheremo meglio: si tratta ancora di una teofania, di un modo col quale l’autore «propone, in categorie narrative, un discorso teologico» (M.G. Mara, Il Vangelo di Pietro, EDB 2002. 76). Ma mentre l’apocrifo parla di un terrore sconvolgente che prende tutti, Matteo è più sobrio, e la paura, paradossalmente, porta addirittura a riconoscere la presenza di Dio nell’evento: «il centurione e quelli che insieme a lui facevano la guardia a Gesù, visto il terremoto e quanto accaduto, ebbero una grande paura e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio”» (Mt 27,54).
Per tornare ai racconti evangelici, ricordiamo che anch’essi non contengono semplicemente elementi storici, ma anche interpretazioni teologiche degli eventi lì narrati, e quindi ci dobbiamo aspettare che la mano di Matteo emerga in modo evidente attraverso alcuni dettagli che contraddistinguono il suo modo di scrivere e il suo pensiero, e uno di questi, come si è detto, è proprio l’ultimo terremoto narrato dall’evangelista in Mt 28,2, mediante il quale si apre la tomba del Risorto: «Vi fu un grande terremoto: un angelo del Signore sceso dal cielo, avvicinatosi, rotolò la pietra e vi si sedette sopra. Le sue sembianze erano come folgore e il suo vestito bianco come la neve». Mentre le guardie rimangono tramortite dal fenomeno, le donne sono invitate a non avere paura: devono ascoltare il lieto annuncio e incontrare il Risorto. Anche quest’ultimo terremoto, come quello che accompagna la morte di Gesù, deve essere inteso per il significato che il segno vuole veicolare, quello di una teofania. Lo spiega la Pontificia Commissione Biblica in un documento del 2014 sull’ispirazione e la verità nella Bibbia. La citazione di questo autorevole testo permette anche di fare una sintetica riflessione generale sui terremoti nella Bibbia: «Il “terremoto” sembra far parte dello stile teologico di Matteo. Solo questo evangelista infatti menziona un terremoto – congiunto con altri fenomeni straordinari – dopo la morte di Gesù (27,51-53), e lo presenta come il motivo per cui il centurione e i suoi soldati vengono riempiti di paura e confessano la figliolanza divina di Gesù crocifisso (27,54). A questo proposito si deve considerare che, nelle descrizioni di teofanie che si trovano nell’Antico Testamento, il terremoto è uno dei fenomeni in cui si manifestano la presenza e l’agire di Dio (cf. Es 19,18; Gdc 5,4-5; 1 Re 19,11; Sal 18,8; 68,8-9; 97,4; Is 63,19). Nell’Apocalisse il terremoto indica simbolicamente una scossa che tende a far crollare il “sistema terrestre”, costituito da un mondo che, costruito al di fuori di Dio e in opposizione a Lui, a un certo punto crolla (cf. Ap 6,12; 11,13; 16,18). È probabile quindi che Matteo utilizzi questo “motivo letterario”. Menzionando il terremoto, egli vuole sottolineare che la morte e la risurrezione di Gesù non sono eventi ordinari, ma eventi “sconvolgenti” nei quali Dio agisce e realizza la salvezza del genere umano. Il significato specifico dell’azione divina deve essere desunto dal contesto del vangelo: la morte di Gesù porta a compimento il perdono dei peccati e la riconciliazione con Dio (cf. Mt 20,28; 26,28), e nella sua risurrezione Gesù vince la morte, entra nella vita di Dio Padre e ottiene il potere su tutto (cf. 28,18-20). L’evangelista non parla dunque di un terremoto la cui forza potrebbe essere misurata secondo i gradi di una determinata scala, ma vuole risvegliare e dirigere l’attenzione dei suoi lettori su Dio, mettendo in rilievo il dato più importante della morte e della risurrezione di Gesù: il loro rapporto con la potenza salvifica di Dio» (Ispirazione e verità nella Sacra Scrittura, 120). Il terremoto nel Primo vangelo è un segno che, pur volendo evocare quegli effetti emotivi della paura o del terrore che esso porta con sé, va compreso come un genere letterario («motivo letterario», secondo la Pontificia Commissione Biblica) che veicola addirittura un contenuto di stampo positivo: è un modo per dire come la salvezza di Dio si manifesta in modo sconvolgente, e, aggiungiamo noi, imprevedibile e incontrollabile. Chiunque sia stato colpito da un sisma, sa bene che al primo potrebbero in qualche momento seguire altre scosse, e non può far nulla se non mettersi al riparo da esse.
Sia il terremoto nel mare di Galilea, sia quello che ha luogo quando il Messia entra a Gerusalemme, come anche i terremoti alla morte del Messia e all’apertura della sua tomba vuota, sono espressioni di un linguaggio teologico che dice la straordinaria presenza di un Dio che parla anche attraverso la creazione. Dobbiamo dar credito all’evangelista Matteo, e non considerarlo ingenuo al punto da confondere il piano della natura con quello teologico: gli antichi sapevano già riconoscere le cause dei terremoti, se anche uno storico contemporaneo di Matteo come il già citato Flavio Giuseppe poteva scrivere che non devono atterrirci «gli sconvolgimenti delle cose inanimate, né si deve credere che il terremoto sia presagio di altre calamità; tutto ciò che accade agli elementi è un fatto di natura, e agli uomini essi non recano altro danno all’infuori di quello che è in loro». Lo storico si riferiva ad un terremoto che, come egli riferisce, aveva avuto luogo in Giudea nell’anno 31 a.C., «sul principio della primavera, e che fece perire un numero infinito di capi di bestiame e trentamila persone» (Guerra Giudaica I,19,370; 377).
L’evento sismico a cui si riferisce Giuseppe è stato di nuovo preso in considerazione nel 2011 in un articolo della International Geology Review, «An early first-century earthquake in the Dead Sea». J.B. Williams, M.J. Schwab e A. Brauer, esaminando campioni di roccia di Ein Gedi, sul Mar Morto, prendono come punto di riferimento cronologico proprio quel terremoto descritto da Giuseppe Flavio, avvertito fino a Gerusalemme. Esaminando lo stesso campione, riflettono anche sui due terremoti di cui parla Matteo a riguardo della morte e risurrezione di Gesù (il secondo dei quali, secondo la loro definizione, sarebbe stato un aftershock), e ne trovano un indizio nello stesso campione di roccia. Ad avviso dei tre geologi, vi è la possibilità che questi due terremoti di cui parla Matteo abbiano avuto luogo nell’anno 31 d.C. (ma con una approssimazione di ± 5 anni) proprio come lo descrive il vangelo, ma esiste anche la possibilità che Matteo si riferisca ad altri eventi sismici che avrebbe preso a prestito come “modelli”, creando così una fiction allegorica. Le conclusioni di questo studio non sono risolutive, e lasciano aperte le possibilità che anche noi abbiamo esplorato prendendo in esame i quattro terremoti di cui narra Matteo. Rimangono da considerare le parole di Gesù in Mt 24,7, che descrivono un evento non ancora accaduto: «Vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi». Questo detto, che si trova anche in Lc 22,11 e in Mc 13,8, non si sottrae a quanto visto finora. Inutile provare a studiare la magnitudo di questi sismi, o la loro frequenza: Gesù sta usando un linguaggio simbolico (non interpretabile in modo fondamentalista) per dire che quando la salvezza di Dio sarà compiuta col ritorno di Gesù, tutti se accorgeranno.
Anche se può sembrare strano, questi sismi così spaventosi che oggi portano sofferenza a chi ne subisce le conseguenze, nel vangelo sono segni che si aprono a una futura salvezza. •

Giulio Michelini

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