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Piazza San Pietro: anche le colonne del Bernini sono sorprese da questo Papa

Lo Spirito di Dio soffia più forte di ogni immobilismo dottrinale

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Contestano a Papa Francesco la sua apertura ai peccatori (non al peccato), la sua tenace apertura al dialogo

Giulio Andreotti era solito affermare che per lui, e per gli altri romani, il cardinale che avesse avuto la missione di indossare quella veste bianca, nascondendo in essa la propria specifica persona e quasi perdendosi nel ruolo luminoso di guida spirituale e di Vicario di Cristo, diventando “er Papa”, diventava ipso facto degno di tutta la venerazione e il rispetto possibili. E di affidamento, chiunque egli fosse e qualunque fosse stata la sua storia precedente. Il Papa, insomma, era il grande segno che una presenza misteriosa e salvatrice accompagna lo scorrere delle vicende umane, e tale circostanza superava qualsiasi perplessità e qualsiasi tentazione di giudizio men che favorevole su tutto ciò che egli facesse o affermasse, nonostante che l’infallibilità fosse assicurata solo per i pronunciamenti ex cathedra.
Una simile distinzione fra meriti e colpe personali, da una parte, e luminosità del compito divinamente assegnato da Cristo, dall’altra, brilla anche nella Divina Commedia, e a proposito dell’“odiato” Papa Bonifacio VIII. Costui è, infatti, atteso all’inferno nella bolgia dei simoniaci: “Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto. // Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio / per lo qual non temesti tòrre a ’nganno / la bella donna, e poi di farne strazio?». (Inf., XIX, vv 52-57). Ma quando i Colonna – feroci antagonisti dei Caetani ai quale apparteneva Bonifacio –, con l’attiva opera del Nogaret, emissario di Filippo IV il Bello di Francia, fanno rapire ad Anagni il Papa (“lo schiaffo di Anagni”), Dante insorge con una condanna senza appello: “Perché men paia il mal futuro e ’l fatto, / veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto. // Veggiolo un’altra volta esser deriso; / veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele, / e tra vivi ladroni esser anciso.” (Purg., XX, vv 85-90).
È pur vero che ci fa imbattere in un Papa eretico (Anastasio) tratto in inganno probabilmente da un certo Fotino (“Anastasio papa guardo, / lo qual trasse Fotin de la via dritta”, Inf., XI, vv 8-9); ma questa uscita occasionale di strada, al pari di altre, soprattuto sul piano morale, non inficia minimamente la sua convinzione che il Papa sia il “sole” che illumina la via “di Deo”, cioè la strada che conduce alla vita eterna (cfr. Purg., XVI, v 108). E così, Bonifacio VIII regnante, fa dire a Beatrice (Par., V, vv 76-78): “Avete il novo e ’l vecchio Testamento, / e ’l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento.”
E oggi? Siamo in un periodo di eresia papale? La domanda è brutale, ma necessaria, perché innumerevoli pubblicazioni, interventi pubblici anche editoriali, infinite insinuazioni sulla rete, tratteggiano il ritratto fosco e angosciante di un Papa che sta portando la Chiesa alla rovina, deviando verso la perdita della fede e della fedeltà a Cristo, e quasi accelerando la venuta dell’Anomos (Anticristo) e dunque della seconda venuta di Cristo stesso. L’invito è implicito, ma più che palese: abbandonare la sequela di Papa Francesco in attesa di tempi migliori.
Ma se davvero così facessimo, ci troveremmo davvero nel giusto? No, perché saremmo privi delle garanzie evangeliche: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno”; “Pietro, Pietro, io ho pregato per te, perché la tua fede non venga mai meno”; “Pasci il mio gregge”; “Io sono con voi fino alla fine del tempo”.
Se, dunque, la promessa è data a Pietro, è data altresì ad ogni Pietro che si è succeduto e si succederà nel ministero a lui affidato, ad ogni Pietro con i suoi limiti umani, che nel primo arrivarono addirittura al tradimento esplicito; e perciò, per ereditare la promessa, dobbiamo seguire Pietro. Non c’è altra scelta, tutto il resto è velleitarismo individualistico ammantato di superbia e di supponenza, in buona fede, a volte, in malafede spesso. E poi guardiamo la cosa da un punto di vista del nostro “egoistico” interesse finale: ammesso e non concesso che, seguendo il Papa, finissimo in errore, davanti al giudizio di Dio, immaginato pure come lo immaginano i rigoristi, avremmo una giustificazione non da poco: le parole di Cristo! Allora è meglio stare dalla parte del Papa, senza fondamentalismi o fideismi, e anche con piena libertà di parola e di pensiero, e anche, se occorre, di critica; ma con adeguata, corretta, fiduciosa e coraggiosa opzione di fondo.
Ma Papa Francesco è davvero così “eretico”? Di che lo accusano? Di deragliamento dalla dottrina? Ebbene, non c’è uno “iota” di essa che Francesco abbia abolito o svalutato. Contestano la sua eccessiva apertura ai peccatori (non al peccato), verso tutti i peccatori, e anzi il fatto che più grandi peccatori sono, più la sua misericordiosa accoglienza pare gioire. Contestano la sua simpatia generalizzata, la sua tenace e sincera ricerca di dialogo, le sue braccia spalancate verso qualsiasi uomo, le sue mani giunte e le sue labbra oranti insieme a quelle di non cattolici o addirittura di credenti in fedi diverse; contestano la sua fattiva persuasione che ogni uomo, ma proprio ogni uomo, sia destinatario dell’amore di Dio.
Non che la Chiesa, in verità, queste cose le avesse mai negate o rinnegate, ma le aveva chiuse e protette all’interno di formalismi, moralismi, legalismi ad ordinem servandum (a salvaguardia dell’ordine costituito), rigidismi, teologismi, dogmatismi, liturgismi, corporalismi o spiritualismi, e chi più ne ha più ne metta. L’Agape/Caritas di Dio, quella sfera libera di fuoco, quella santa belva di salvezza, ingabbiata e resa quasi innocua, tenuta al sicuro in sicurezze umane e somministrata agli eletti, ai regolari, ma a piccole dosi.
Siamo sinceri: Papa Francesco non rinuncia a niente che abbia valore. Non rinuncia allo spirito o al corpo, alla liturgia, ai dogmi, alla teologia, al rigore, alla regola, alla morale, alla forma santa e a tanto altro. Il suo desiderio è che tutto ciò non faccia da barriera all’Agape/Caritas di Dio, ma sia ad essa totalmente trasparente; non ne riduca la forza, ma la amplifichi.
Ma così facendo, cioè depotenziando gli “ismi” e aprendo tutte le porte possibili all’Agape, non è che si facilitano lassismi, opportunismi, nichilismi e relativismi spirituali, o addirittura si scandalizzano i benpensanti?
Certo che sì, osservano gli autodefiniti difensori di Dio, e dunque dobbiamo rallentare, frenare, fermare, ammainare le vele se lo Spirito soffia troppo forte. Ma abbiamo davvero fede, se crediamo che l’Agape/Caritas di Dio, infinita potenza, infinita sapienza, infinita bontà, dalla quale tutto l’Universo (materiale e spirituale) “riceve esistenza, energia e vita”, si smaghi, si sgomenti, s’“impauri”, si preoccupi, si sminuisca, perché quattro bipedi “pensanti” possono “pensare” di approfittarne a proprio vantaggio? “Essumpò!”, direbbe Luigi Maria Musati; e “Ma de che?”, esclamerebbero a Roma! •

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