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Lapedona: le sue colline e le sue campagne

Il borgo: l’eco di civiltà perdute

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Da Monte Pregnano (Lapedona) risalendo per Altidona

Giornate incerte, con pioggia che ha reso verdissimi i nostri campi, e sole che, sbucando dalle nubi, già parla di estate prossima pur nel mezzo di una fredda primavera.
Porto con me Laudato si’ di papa Francesco. Conforta la visione positiva dei Borghi molto prima che se ne intitolasse l’anno 2017.
I borghi sono il nostro tesoro, ha ribadito Ottavia Ricci, consulente del ministro Franceschini per il turismo sostenibile, intervenuta ad un convegno presso l’Officina del sole di Montegiorgio. Non solo Roma o Venezia o Firenze. I turisti scelgono il piccolo tour, i borghi appunto.
Ma non è solo questione di turismo. Il borgo è modalità di civiltà diversa.
«Oggi riscontriamo la smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili… Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto, vetro e metalli, privati del contatto fisico con la natura». Città perdute, molte, non luoghi, tanti. Quelli veri sono altrove.
Leggo le parole del papa, seduto accanto ad una ginestra in fiore, su un cucuzzolo di colle chiamato monte. Monte Pregnano è un crinale con una strada di terra, che il comune di Lapedona ha sbarrato per dissesto del fondo. A piedi è stupenda. Sono arrivato scendendo dalla periferia di Lapedona, lasciandomi alle spalle una brutta insegna del COAL. La via che percorro è asfaltata e costeggiata di olivi ordinati. Qualche centinaio di metri in discesa poi si risale verso Altidona e, sulla sinistra, il viottolo sbarrato. C’è una fontana nei pressi, ben tenuta, e tante case ristrutturate. Tutte belle.
Cerco il castello-convento del Saltareccio. È più avanti. Non si scorge facilmente. C’è un viale appena accennato. E querce enormi e secolari. Lo percorro: a sinistra un rio ricco d’acqua e di rane gracidanti. Proprietà privata, intima un cartello con una catena a sbarrare l’in-sbarrabile. Altre querce, uno spiazzo. L’edificio dalle mura antiche. Le imposte sono cadenti, l’erba è alta. La cappellina invece è ben tenuta e curata. La scorgo attraverso un cancello e una porta semi-aperta.
Monaci benedettini agli inizi, agostiniani poi, infine minori francescani. Non poteva essere diversamente: dietro c’è selva.
«Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori ed herba». Così cantava san Francesco, così hanno cantato i suoi fratelli del Saltareccio. Secoli più tardi la casa colonica e poi l’abbandono.
La violenza, scrivono alcuni psicologi, è favorita da un’insistenza sul brutto: periferie trasandate, luoghi sporchi, capannoni abbandonati, immagini tetre. «Quando non si impara a fermarsi ad ammirare e apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» scrive Bergoglio. Eppure, basterebbe camminare un poco per la Terra di Marca per godere di altre visioni.
Una cantata di Lindo Ferretti ricorda: «Terzo millennio iniziato, scomparsi agricoltura e allevamento, una modernità già vecchia e malandata, tutto torna foresta, tutto torna selva».
Non è questo che vorrei. •

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