Porto Sant’Elpidio: passeggiata nel bosco di una villa
Esiste una Porto Sant’Elpidio nascosta. E diversa. E fuori dai cliché consueti.
È abbarbicata alla collina, compresa tra vecchie-nuove frazioni e ville gentilizie. L’ho camminata in una giornata di quasi inverno, con nevischio in volto.
Fonte serpe ha un nome poco tranquillizzante. E anche quell’enorme serpente di cemento, chiamato autostrada, mette non poco a disagio. Tre piloni enormi si ergono su di un sito archeologico di cui nessuno parla più.
Eppure, anni fa, qui fu rinvenuta un’estesa necropoli Picena. Se ne occuparono università importanti. Poi, le tombe ricoperte portarono il luogo nella dimenticanza odierna. Volevo scrivere: «nel silenzio», ma il flusso d’auto sulla A14 fa colonna sonora giorno e notte all’eterno riposo di allevatori, guerrieri e matrone.
Guardando nord, i piloni infilzano un colle dalla vegetazione ricca di flora mediterranea interrotta dai terribili pannelli fono assorbenti. Lì dietro, tra lecci altissimi e querce, e palme e abeti, c’è Villa Baruchello. Mi inoltro. Qualcuno asserisce che, tre millenni fa, tra i due colli, ci fosse mare e porto. Non improbabile. Ho con me un libro di Giulio Sapelli, Oltre il capitalismo. Un po’ guardo, un po’ leggo. Testo difficile. Ne propongo un passaggio, tratto dall’introduzione che a sua volta si rifà ad una frase di Adorno: «Gli uomini disapprendono l’arte del dono». Il dono: un’altra economia. Mi hanno raccontato che molte donne elpidiense furono imprenditrici di prestigio, eredità raccolta dall’Annarita Pilotti, in arte Loriblu.
Sono al cancello della villa. Baruchello! Cerco spiegazioni nell’araldica: «Nome medievale Baruchello da intendere come vezzeggiativo del nome Barucco o come adattamento del personale ebraico Barachel, col significato di “benedetto da Dio”». Scelgo la seconda.
Entro. Ai lati: un centro sociale e un asilo, di recenti fatture. Più avanti, avanza il Settecento.
Sulla sinistra, un vascone conteneva grandi pesci rossi e particolari erbe; quindi, resti di sostegni di viti e rose. Panchine di pietra e un tavolo ora in piano di legno avranno fatto la gioia di centinaia di bambini elpidiensi. Non so perché ma la mente apre un file. Penso al prof. Antonio Genovesi, filosofo ed economista, docente della prima scuola di economia: Napoli 1700. Fu lui a ribaltare la teoria di Hobbes dell’ «homo homini lupus» nella sua «homo homini amicus». Amico, amicizia. Sarà l’età della villa: il Settecento, e il luogo dei giochi, delle amicizie, e, perché no, degli amori, a disseppellire il motto di Genovesi. Ma il file contiene anche altro. Scriveva Ernst Junger ne Il Trattato del Ribelle: «Quando due persone si amano sottraggono terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla».
Mi inoltro nel bosco. Le staccionate hanno bisogno di rinforzi, la casa del custode ha la porta murata per impedire le tragedie della droga. Raggiungo la sommità. C’è una torretta solitaria e decadente. Le hanno asportato lo stemma. Vi hanno acceso un fuoco. Eppure, il luogo è magico. E vien voglia di difendere sempre più la nostra Terra. E non ritirarsi nel minimalismo esistenziale, che difende il solo proprio, senza sguardo intorno, e senza più voglia di costruire alcunché. •