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Assaporare l’essenziale

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A Lapedona il 22 dicembre alle ore 21.00, presso la Sala Madonna Manù-S. Quirico ci sarà un evento riguardante la presentazione di un libro che parlerà dei rimedi sapienti delle nonne di famiglia. Marina Verzulli eseguirà alla chitarra vari brani di musica classica e a chiusura della serata sarà proiettato un video che riporta immagini di vita rurale risalenti ai primi anni del 1900. Saranno declamate inoltre poesie in vernacolo marchigiano e in lingua italiana in cui i ricordi e la memoria storica di un tempo ormai perduto si riproporranno come avveniva attorno alla rola alcuni anni fa. Si aspettava così il Natale con i racconti a volte super fantastici degli anziani di casa attorniati dai numerosi bimbi che in silenzio e con occhi attoniti ascoltavano memorie passate in attesa della Messa solenne di Mezzanotte. Ed ecco la narrazione suggestiva, preziosa e vera che ho ricevuto ben volentieri da Alfredo Recchi da Moresco, classe 1929.

“Mi ricordo in modo chiaro la vita di allora, miseria nera di numerose famiglie e tra queste anche la mia. Ricordo l’atterrato, locale ricavato con pali di legno racchiusi con paglia e malta impastata. Ricordo due monolocali e due bilocali, uno ancora esistente. Lì vi si cucinava, vi si mangiava, vi si dormiva e purtroppo ci si moriva. Privi di servizi igienici, le varie necessità si facevano alla luce del sole o delle stelle.
Sotto questi tipi di fabbricati, chiamiamoli così, al piano terra c’erano il maiale, la pecora, le galline e in una parte, il magazzeno. Le dimensioni di questi tuguri erano di solito cinque per cinque. Non sempre questo piccolo capitale era di proprietà dell’occupante. C’era il padrone che oltre ad essere pagato pretendeva ben altri favori. Guai a ribellarsi, si veniva sbattuti fuori e non si faceva ritrovare un posto dove poggiare il capo.

Esistevano poche case coloniche, in parte fatiscenti ed erano strutturate in tal modo: al piano terra una metà veniva occupata dalla stalla, sempre a levante. L’altra metà erano la cucina, la cantina e il forno. Al primo piano due camere, il magazzeno e in fondo la rampa delle scale, una piccola cameretta. La stalla e la cucina erano comunicanti divise solo dalla rampa delle scale. La puzza non si sentiva più. I nasi erano assuefatti. Le mosche giravano a stormi e molto spesso cadevano in coppia sui piatti, nel cibo, specie sulla polenta messa sulla spianatoia. L’igiene a quei tempi era scarsa, non poteva essere diversamente con la presenza degli animali in continuo contatto con l’uomo. Non mancavano i pidocchi e pulci che specie la notte ci facevano il salasso.
Tornando alle case, erano tutte vecchie costruzioni, in parte malandate e i padroni non pensavano minimamente di migliorarle. Oltre ad avere delle pretese, i prodotti venivano divisi al sessanta per cento fino all’arrivo della Legge sulla Mezzadria in cui tutto era diviso al cinquanta, spese comprese. La quasi totalità dei contadini era analfabeta. E i padroni quasi tutti disonesti, “frecavano” sui conti. Il libretto colonico era sempre in rosso. Come potevano sdebitarsi? Bisognava pur vivere. Qualche cosa in più si poteva avere dalla vendita di una bestia. Sul libretto colonico venivano annotati i cosidetti “presenti” che il contadino doveva mensilmente consegnare al padrone: venti uova al mese, un pollo e verdure varie; a Natale un paio di capponi di peso non inferiore ai 5 Kg. Fortunatamente questi tristi figuri non esistono più. È scomparsa la mezzadria e i contadini sono o coltivatori diretti o imprenditori agricoli. Molti hanno abbandonato la terra, sono corsi all’industria specie calzaturiera. Tutto si è ribaltato anche le case di nuova costruzione restano chiuse. Com’era bello vedere quei gruppi di gente che si recavano al mercato, si scambiavano i saluti, confidenze. Insomma si parla di un po’ di tutto. Si portavano al campo boario gli animali e lì si aspettava l’acquirente. Non sempre si riusciva a vendere e verso mezzogiorno si riprendeva la via del ritorno. Le nostre massaie avevano i canestri in testa pieni di uova. Venderle serviva per acquistare: sale, fiammiferi e petrolio per fare luce la sera.
Le brave massaie di campagna facevano la sfoglia per i tagliolini, ma senza uova perché bisognava venderle per comprare quanto già detto. Dei tagliolini rimaneva solo il nome, il resto era tutto un “zallocco”. Gli alimenti erano poveri, poco nutrienti e molte erano le malattie che spesso non si riusciva a debellare trascinando l’individuo alla morte.
Le farmacie di allora avevano pochi farmaci e molti rinunciavano all’acquisto non avendo di che pagare. Andare all’Ospedale era un lusso di pochi. Ci si affidava al medico di famiglia e all’ostetrica per partorire. Talvolta si moriva di parto per mancanza di strumentazioni valide. Si viveva molto meno di oggi. Erano pochi coloro che superavano i sessant’anni eppure la gente era felice. Nelle campagne si sentivano i canti, nelle case si pregava e oggi???. Ricordo con acuta nostalgia quando si trebbiava e si riempiva il magazzino che serviva da sostentamento per tutto l’anno.
La trebbiatura era l’occasione per fare una mangiata vera di pastasciutta, alla fine del lavoro. Arrivavano le brave donne con quelle fiamminghe fumanti che consumavamo all’ombra delle piante. Mi sembra di sentire ancora quel profumo. Il sugo veniva fatto con il gallo, il re del pollaio, che per l’occasione veniva sacrificato. Che dire poi del secondo? Oca arrostita al forno, profumatissima per il finocchio selvatico. Questa era l’unica mangiata abbondante dell’anno. Poi si tornava alle ristrettezze accennate. Qui è forse il caso di ricordare il vecchio detto e cioè: Chi gode un giorno, non pena tutto l’anno”.

Dal racconto anche sofferto e vissuto di Alfredo, mi torna in mente il tempo suggestivo e atteso dell’Avvento in cui anche la recita in famiglia del santo Rosario era una abitudine a cui nessuno poteva sottrarsi così come accadeva a casa de la Lolona.
Gni sera, ‘na vota,
prima de ji’ a durmì
a se dicìa fota fota
la curona ‘ccostu lu camì.
Ce statìa prorbio tutti
da li vecchi sdendati,
a li frichitti spisciati.
‘N gorbu te pìja
pe’ chi no’ la dicìa
quasci quasci la vergara,
a te scommunichìa.
Cuscindra, a denti stritti
e coll’occhi cacalusi,
se scurunìa ansema,
co’ certi longhi musi…
“Avemene Maria,
plena de grazzia…
Statte fitta Carulì,
che sci prorbio ‘na disgrazia.
Il Signore è cun dé…
Non te durmì Guiè!
Tu sci biniditta
intra tutte le donne…
Marì, lassa stà si ciurri,
che te piccico du’ tonne-.
E venedetta lu fruttu
del seno tuo Jesù…
Me dici Guiè,
perché non me pinzi più?
Sancta Maria, matre Dei…
Lassa perde ‘ssì pucì,
ca d’è li mei!
Ora pronnobis peccatroni
bus Nu e t’innora…
Che te pare Filumè
de fà sembre la signora?
E cuscì se ‘rrijia a la fin fine
fra moccò de cimendi e litanie.
La curona venedetta
tutti quanti l’era detta,
la cuscienza ad’era ‘n pace
co’ la fava sotta la vrasce.
Co’ la neve e co’ lu vendu
Se passìja pure l’Avvendu.

E a Natale?
Ai grandi niente di che e ai più piccoli per farli felici bastavano: un torroncino, un mandarino, due o tre noci e un pezzetto di salsiccia.
La felicità era nelle piccole cose. Dovremmo imparare a ritrovarla. •

About Stefania Pasquali

Stefania Pasquali nativa di Montefiore dell'Aso, trascorre quasi trent'anni nel Trentino Alto Adige. Ritorna però alla sua terra d'origine fonte e ispirazione di poesia e testi letterari. Inizia a scrivere da giovanissima e molte le pubblicazioni che hanno ottenuto consenso di pubblico e di critica. Docente in pensione, dedica il proprio tempo alla vocazione che da sempre coltiva: la scrittura di testi teatrali, ricerche storiche, poesie.

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