Ha rescisso la luce della carne dalla luce della divina appartenenza, sprigionando solo “tenèbra” e snervandosi alla fine in un sulfureo pendolarismo tra insipienza attiva (Goethe) e inganno deliberato. Intelligenze dissociate e rimbombanti, autodispensate da qualsiasi confronto con la ragione o con il semplice buon senso, senza imbarazzo alcuno si avventano a conquistare gli onori della cronaca – e le relative prebende – mediante la vociferazione irrazionale, l’irrisione pusillanime, l’arbitraria arroganza, l’ottusità delle dimostrazioni.
A una così lacera facoltà visiva è gradita la vista di un mondo soffocato nell’inconfutabile discontinuità tra la luce che filtra dall’universo e un’ipotetica luce divina. Ma un mondo la cui luce non si protenda verso un’Altra Luce è un mondo oscuro e sospeso nel nulla, trasferito in un deserto senza indizi, dove lo stesso chiarore dell’alba altro non è che il sostituto effimero della notte. Contro questa oscurità nulla possono i surrogati ontologici esperiti dopo la cacciata di Dio dall’orizzonte.
Sulla linea di caduta, dove facilmente la tenebra dilaga, abbassato lo sguardo, il volto si ritrae da qualsiasi incanto; e la traiettoria, prima diretta eventualmente verso l’alto, si flette e precipita. Le ali perdono penne e portanza, il kósmos cede al cháos, la regola all’anomia, l’armonia al disordine, l’energia all’entropia, il chiarore all’oscurità, la bellezza allo squallore. Il mondo appare álogos e ánomos, un ‘essere-per-la-morte’, mentre il firmamentum chiude in una corte di nichilistico ‘non-senso’ qualsiasi ascesa verso la speranza, la verità, la fedeltà, e l’éros si frantuma in sciami di meteore carbonizzate prima del lampo. Se i reduci dallo stupore, confusi dagli argomenti avari e invidiosi – e insidiosi – dell’ ‘ermeneutica del no’, perdono la battaglia con la tenebra, tutto si disintegra, letteralmente si ‘dia-bolizza’.
Ogni linguaggio si trasforma in una serie interminabile di tenebrosi e futili echi autoreferenziali, in una babele di discorsi incomunicabili che urtano, schiantandosi o rimbalzando via, contro la superficie del reale. La poesia non sa piú di cosa parla(re); né lo sa la scienza o la filosofia o l’arte, la tecnica o l’economia, la politica o l’etica, la storiografia o la cronaca.
L’unico e ultimo svigorito vigore dello spirito rimane il languore di Narciso intossicato dall’hýbris del fumo di Prometeo: la forma piú sottile dell’odio verso l’Altro, verso ogni altro, verso quell’incompiuta compiutezza di ogni altra cosa che chiamiamo mondo, e infine verso quell’altro che è il sé di ciascuno.
Una simile fuga dalla realtà possiede il suono di una protesta ossessiva e disperata contro Qualcuno che, senza chiederci alcun permesso, ci ha fatti di carne, di una carne mortale, plasmata con la terra. Questo è troppo per la scimmia nuda bramosa della vita e preda della morte: meglio la fuga ribelle, la ribellione fuggiasca, la bramosia della morte e il disdegno della vita. Ma di che cosa è fatta la carne, e di che cosa è fatta la terra, se non di luce e di Parola?
E allora la sfida può essere sostenuta solo abbandonandosi, per misteriose e molteplici vie, all’ascolto del Lógos, la Parola detta prima, il verbo arcaico, il suono silente di tutte le voci, e loro dimora e conchiglia; lo spazio aperto ma invalicabile del sacro, il ‘dato’ che non può essere posseduto. In Lui solo, proprio nel suo “infinito eccesso”, si trova la resistenza che della realtà tutela il senso e la provocante alterità, vietandone la combustione nel cortocircuito tra verità e discorso.
Solo il Lógos-Luce-carne rende persuasiva la sproporzione tra la parola umana e “l’infinita via” della verità, e fa esaltante l’intervallo fra entropia e vita, tra ricerca e conoscenza, tra conoscenza e sapienza. Solo in esso la scienza, la filosofia, la poesia, la mistica, la teologia, l’arte e la stessa téchne possono essere altrettante fioriture sull’unica via della peregrinazione verso la lucente iridescenza dell’Assoluto. La risposta alla domanda d’inizio è positiva. Anzitutto in senso generale. Nella temperie odierna della chiacchiera universale, mediante la quale l’antico avversario sta tentando di neutralizzare la Parola di Dio mediante la parola fine a se stessa e autocomburente, ha senso ogni luogo in cui la parola possa essere pronunciata in unità simbolica con il detto che la supera, il cui contenuto rappresenta quella resistenza esterna che le vieta il cortocircuito dell’insensata inutilità.
Ma è positiva, la risposta, anche in senso specifico, perché lo strumento editoriale, essendo “inter-locutorio”, si oppone alla degradazione del silenzio nell’indifferenza verso qualsiasi richiamo di verità. Ben diverso, ovviamente, dal silenzio mistico che, in quanto contemplazione, altro non è che lultima parola invocante l’avvento della rivelazione.