Nel film gli abitanti dove andrà a girare un documentario un regista vivono senza mai porsi quella domanda che assilla sempre noi: cosa accadrà dopo? Il nostro sguardo scivola sempre via verso un futuro di cui vorremmo controllare gli eventi, anche la morte. E intanto ci perdiamo il bello che scorre sotto i nostri occhi, siamo disattenti a ciò che ci capita intorno, alle persone, alle relazioni.
Ne Il vento ci porterà via il regista attraversandone in moto il “paesaggio”, girando di collina in collina e di casa in casa, ci insegna ad assaporarne la sua luce, a riempirsi gli occhi, a guardarne lo splendore, le sue linee, le sue curve, i suoi colori. Ci accosta ad ogni personaggio per farci intendere quanto è inadeguata la cinepresa anche nei suoi primi piani a raccontarcelo davvero nel profondo. E quanto è inadeguato il nostro occhio che passa sempre oltre e non si sofferma ad ascoltare, a comprendere, ad esprimere vicinanza.
Forse a molti apparirà un film povero, noioso, senza trama; oppure qualcuno vedrà qualcosa di diverso: ma bisogna avere pazienza, bisogna essere disposti ad uscire dai propri schemi visivi, condizionati come siamo da una vita che conosce, anche nello sguardo, solo la velocità, che non sa assaporare la lentezza che indugia e che, lei sola, può permetterci di catturare l’atmosfera di un luogo e di un ambiente lontani dal proprio. Quella lentezza che ci permetterebbe di intessere relazioni più significative e vere.
Come ha detto Kiarostami,
“Le mie immagini non sono il risultato del mio amore per la fotografia, ma del mio amore per la natura. È qualcosa di simile a un regalo o a un ricordo”.
“Per me è come un calmante, ha su di me un effetto terapeutico magico”.
Il film è poesia dell’immagine e il titolo è preso da un verso della poetessa Forug Farroxzad che dice:
“La Poesia è per me come una finestra e ogni volta che io le vado incontro, si apre da sé. Io mi siedo là: guardo, canto, grido, piango. Mi confondo con l’immagine degli alberi e sono consapevole che qualcuno mi ascolta, qualcuno che esisterà tra duecento anni o che esisteva già trecento anni fa. Non vi è differenza. È un modo di comunicare con l’esistenza, con la totalità dell’essere. È un privilegio di cui il poeta, componendo versi, può beneficiare: anch’io esisto o esistevo. Altrimenti come si potrebbe affermarlo? Nella Poesia, io non cerco nulla. È così che posso, quasi per caso, trovarvi quanto vi è di nuovo in me”.
E questa è la poesia di Forugzamand Farroxzad da cui è tratto il titolo del film:
Dentro la mia notte, così breve, così impetuosa
il vento e le foglie si ritrovano
La mia notte è breve e piena di un’angoscia devastatrice.
Alla disperazione sono abituata
Ascolta, senti il frusciar delle tenebre?
Io guardo meravigliata questa felicità
Ascolta, senti il frusciar dell’oscurità?
Ora, nella notte, qualcosa sta passando,
e la luna rossa è in allarme.
Su questo letto,
che ogni momento rischia di cadere
le nuvole, come un popolo in lutto,
attendono il momento della pioggia.
Un momento e subito dopo… nulla più.
Dietro questa finestra
la notte trema e la terra smette di girare.
Oltre la finestra, un estraneo si preoccupa di me e di te.
Oh corpo rigoglioso… le tue mani come un ardente ricordo,
si posano tra le mie (mani) innamorate.
E le tue labbra, come una sensazione calda di vita,
accarezzano le mie labbra innamorate.
Il vento ci porterà via.
(Traduzione dall’inglese in italiano di Silvio Corsini)
Emilia Di Rienzo
Insegnante, vive a Torino, cura un prezioso blog – Pensare in un’altra luce. Ha aderito alla campagna 2016 “Facciamo Comune insieme“. Un suo contributo è stato raccolto nel quaderno Ci vuole il tempo che ci vuole. Imparare a perdere tempo, insieme a interventi, tra gli altri, di Alain Goussot, Franco Lorenzoni, Lea Melandri, Paolo Mottana e Serge Latouche.