In occasione della giornata per la sicurezza online (Safer internet day), la nota agenzia internazionale per l’infanzia Save the children ha pubblicato una ricerca intitolata “Che genere di tecnologie?”.
Il mainstream dell’informazione ne ha evidenziato un dato: in Italia, la metà dei bambini e delle bambine di 6-10 anni usa internet; si tratta di un aspetto quantitativo, tutto sommato non sorprendente; quello che però deve interessare il mondo adulto è l’aspetto qualitativo, ovvero cosa fanno i bambini e i giovanissimi sul web.
La ricerca, letta integralmente, accende un faro sul comportamento dei 12-14enni in rete, che sorprende e preoccupa non poco. Ecco alcuni dati: quasi la metà delle ragazze (il 42%) chatta spesso o sempre con uno sconosciuto utilizzando Whatsapp, Skype o Facebook; circa il 30% delle femmine e circa il 40% dei maschi considera “pratica diffusa” tra i coetanei l’invio e la ricezione online di immagini con riferimenti sessuali; quasi il 20% delle femmine e oltre il 23% dei maschi considera sempre “pratica diffusa” tra coetanei l’invio di video e immagini “seminudi, nudi, per ricevere regali, come ad esempio ricariche telefoniche”, per soldi, quindi.
La ricerca evidenzia pure che, insieme alla sessualizzazione sempre più precoce delle relazioni, cresce, con la stessa percentuale, lo scambio di contenuti violenti, come a dire che eros e thanatos (amore e morte), senza logos (la ragione), vanno a braccetto, con l’aggravante che l’età a cui si inizia ad usare la rete si abbassa progressivamente lambendo drammaticamente l’infanzia.
Gli autori della ricerca offrono anche una lettura dei dati che, a mio avviso, rischia di non cogliere la causa del problema che si vorrebbe denunciare, per esempio quando considerano la sessualità non come forma altissima di relazione che implica il coinvolgimento dell’intera persona, ma come “qualcosa” di staccato, una funzione corporea da “sperimentare” anche in rete. Nella ricerca, infatti, si legge che le nuove tecnologie facilitano “la sperimentazione di sé e l’instaurarsi di nuove relazioni anche a sfondo sessuale”; che “i ragazzi e le ragazze hanno il diritto di esprimere la propria sessualità secondo i tempi e i modi adatti alla loro maturità” e che è necessario dotare i giovanissimi “di strumenti che consentano loro di leggere criticamente quello che sperimentano, anche quando si tratta della loro sessualità, per poter definire i propri confini e riconoscere quando una richiesta esterna li supera”.
Ri-analizzando i dati della ricerca, suggerisco tre punti di partenza che, a mio avviso, è opportuno condividere prima di avviare azioni educative in ambito digitale.
La prima: non è possibile astenersi dal dire che fare sexting a 12-14 anni è un comportamento problematico non solo quando fa correre il rischio di incontrare un bruto, ma è ontologicamente devastante per la crescita equilibrata della persona che si sentirà chiamata a dare sempre di più e sempre prima per farsi accettare dal gruppo.
La seconda: non può più sfuggire che a quell’età molti ragazzi e molte ragazze sono ancora pre-puberi e che qualunque azione a sfondo sessuale con protagonisti in età pre-puberale è, quantomeno giuridicamente, pedofilia o pedo-pornografia.
La terza e ultima: occorre iniziare ad annoverare il sexting in età precoce non come un qualcosa che fanno tutti, ma come un cancro sociale il cui vaccino non ha bisogno di iniezioni, ma di una sola frase, senza distinguo o false comprensioni: non si fa, non perché lo dice un bigotto d’altri tempi, ma perché è così che si salvano bambini anche da se stessi. Salvare i bambini, save the children, appunto. •
Marco Brusati