30 anni dalla morte di fratel Carlo Carretto, profeta incompreso
Sono passati 30 anni da quando nella quiete di Spello, presso l’ex-convento di San Girolamo divenuto per più di vent’anni, il centro di ascolto e di fraternità di giovani in ricerca, Carlo Carretto si è addormentato in Cristo, proprio nel giorno in cui la Chiesa festeggia san Francesco (4 ottobre 1988). La sua ricca esperienza di fede, che ha conosciuto varie ed interessanti vicende personali che si sono intrecciate con le vicende politiche ed ecclesiali del pre e post-concilio in Italia, hanno fatto di lui un indiscusso testimone di questo nostro tempo.
Sappiamo bene che il suo itinerario vocazionale è stato tormentato e segnato in maniera indelebile dall’esperienza del deserto algerino, dove fratel Carlo ha vissuto il suo noviziato prima di essere Piccolo Fratello di Charles de Foucauld. Da questa esperienza è nato il libro Lettere dal Deserto che è annoverato tra i fondamentali testi di spiritualità cristiana dei nostri tempi: nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione, il testo continua ad ispirare riflessioni e persino registi (ha ispirato, infatti, un film dell’attore Terence Hill con il titolo Il mio nome è Thomas). Di particolare attualità credo sia il capitolo del libro chiamato “Settarismo” in cui fratel Carlo a contatto con il mondo musulmano dell’Algeria degli anni Cinquanta dello scorso secolo, pur avendo grande rispetto per la cultura e religione locale, si ritrova, lui stesso non accettato. È l’occasione per lui per richiamare al pericolo di ogni settarismo, vissuto in ogni religione. La storia che Carretto trae spunto da un anedotto di cui è protagoniata un piccolo bambino (Abdaraman), che lo accompagna spesso nel suo camminare per il villaggio, forse incuriosito da quell’uomo bianco:
«Abdaraman è un ragazzino musulmano di forse otto anni. Dico “forse”, perché qui non esiste l’ufficio di stato civile, e nessuno prende nota della nascita di un bimbo; così pochi conoscono la loro età con precisione.
Abdaraman non va a scuola, pur essendovi una scuola al di là dell’Oued, frequentata dagli Europei e da qualche “mosabit”, figlio di commercianti del luogo. Non va a scuola, perché suo padre Aleck non lo lascia andare.”Aleck – gli chiedo – perché non mandi i tuoi figli a scuola?”Aleck mi guarda profondamente e mi dice: “Fratel Carlo, non mando i miei figli a scuola, perché diventano cattivi. Guarda i ragazzi che vanno alla scuola: non pregano, non ubbidiscono più e cercano solo di vestir bene”. [….]
Abdaraman è musulmano, ha subito la circoncisione come tutti i figli d’Ismaele ed è della stretta osservanza. Suo padre Aleck è un bravo uomo, ricco di fede e di figli. Quando viene il mese del Ramadan digiuna dall’alba al tramonto, pur continuando a lavorare il suo campo lungo la sponda dell’Oued di Tamanrasset. Aleck è veramente religioso e ogni anno ricorda il sacrificio di Abramo con l’uccisione di un montone e in tale occasione compera un vestito chiaro di cotone a tutti i suoi piccoli. La sua fiducia in Dio è totale; e, anche se povero povero, non ruba, ma vive del suo lavoro, che consiste nello scavare per mesi e mesi nella sabbia dell’Oued un canale sotterraneo chiamato “seghia”e per altri mesi coltivare il suo campetto che ha bisogno d’acqua almeno tre volte la settimana. […]
Dunque: Abdaraman mi accompagna stasera all’eremitaggio. […]Questa sera è serio e risponde a stento alle mie domande. Capisco che ha qualcosa di importante da dirmi e non osa.
Ma so che non tarderò a sapere, perché tra me e lui non ci sono segreti.
“Che cos’hai, Abdaraman, stasera? Perché non parli?”.
Silenzio. “Ma parla, Abdaraman; apri il cuore al tuo amico fratel Carlo”. Abdaraman scoppia a piangere e il suo corpo nudo si agita e si contrae. Ora sono io che faccio silenzio. Debbo attendere la pacificazione degli elementi. Gli serro più forte le mani in segno di affetto.
“Allora, Abdaraman, che cosa ti fa piangere?”.”Fratel Carlo, piango perchè tu non ti fai musulmano!” “Oh – esclamo io – e perché mi debbo fare musulmano? Abdaraman, io sono cristiano e credo in Gesù. Io prego il Dio che creò il cielo e la terra come te, e le nostre preghiere vanno nello stesso Cielo, perché di dei ce n’è uno solo. E il mio Dio è il tuo Dio. È Lui che ci ha creati, ci nutre, ci ama. Se tu farai il tuo dovere, non ruberai, non ucciderai, non dirai menzogne; se tu seguirai la voce della tua coscienza, andrai in Paradiso; e sarà lo stesso Paradiso del mio, se anch’io avrò fatto ciò che Dio mi comanda. Non piangere più”.
“No, no – mi grida Abdaraman; – se tu non ti fai musulmano, vai all’inferno come tutti i cristiani”.
“Oh, questa è bella, Abdaraman! Chi t’ha detto che andrò all’inferno se non mi farò musulmano?”.
“Me l’ha detto il Taleb (maestro della scuola coranica) che tutti i cristiani vanno all’inferno; e io non voglio che tu vada all’inferno”.
Siamo giunti vicino all’eremitaggio e Abdaraman si ferma. Più avanti non è mai venuto. S’è sempre fermato a una decina di passi da quella costruzione, e per tutto l’oro del mondo non entrerebbe, come se là dentro ci fosse una misteriosa diavoleria interdetta ai piccoli musulmani.
L’amore che ha per me, ed è molto, s’è sempre urtato contro questo muro che ci divide e che stasera prende addirittura il nome così tremendo: “inferno”.
Gli dico: “No, Abdaraman; Dio è buono e ci salverà tutti e due; salverà tuo padre, e tutti andremo in Paradiso. Non credere che per il solo fatto ch’io sono cristiano andrò all’inferno, come io non credo che tu ci andrai perché sei musulmano. È così buono Iddio! Forse non hai capito bene che cosa voleva dire il Taleb; forse ha detto che i cattivi cristiani vanno all’inferno. Sta’ tranquillo; va’ a casa a recitare la tua preghiera mentre io reciterò la mia; e prima di terminare, di’ questo a Dio, come dirò io: – Signore, fa’ che tutti gli uomini si salvino. – Va’ …”. Ed entro triste nell’eremitaggio, in questa piccola costruzione di fango, costruita dallo stesso Charles de Foucauld, che volle farsi chiamare Piccolo Fratello universale e che qui morì trucidato per ignoranza e fanatismo dai figli della stessa tribù di Aleck e Abdaraman.
Ma stasera mi sarà difficile pregare! Quale tumulto di pensieri ha suscitato in me il mio piccolo amico!
Povero piccolo Abdaraman! Anche tu vittima del fanatismo, dello zelo intempestivo dei cosiddetti “uomini di Dio”, dei religiosi che manderebbero all’inferno metà del genere umano, solo perché “non sono dei loro!”.
Quanto è doloroso tutto ciò! Come è possibile che ciò avvenga? Che il filo d’amore che mi unisce ad un fratello sia spezzato dal presunto “zelo per Dio”! Che la religione, invece di essere motivo di unione, divenga trincea di morte o per lo meno di odio inconfessato. Meglio non averla questa religione che divide. Meglio brancicare nel buio che possedere una simile luce!
* * *
Dopo un’ora di sforzo per raccogliere la mia povera anima dinanzi al silenzio dell’Eucaristia, mi sono accorto che le lacrime rigavano la mia “grandura” bianca. Ero io ora che piangevo. E sapete perché?
Facendo l’esame di coscienza per purificare la mia anima e non quella di Abdaraman dal settarismo mi era tornata alla memoria una scena che risaliva alla mia infanzia. Avevo allora otto anni, proprio otto anni come Abdaraman. Vivevo allora in un villaggio all’ombra di un antico campanile. Non era molto religiosa la popolazione, ma era chiusa e tradizionalista all’eccesso.
Un giorno venne un uomo a vendere libri, passando di casa in casa. Non capivo molto, allora, ma fu la prima volta ch’io intesi la parola “Bibbia”. Si produsse nel villaggio un’agitazione strana. Prima nelle donne, poi in tutti; chi per zelo, chi per rispetto umano.
Si sentirono nell’aria grida isteriche d’una donna. Da una finestra gridava: “Barbet, barbet. Non abbiamo bisogno della tua religione. Va’ via di qui”.
L’agitazione raggiunse i ragazzi.
L’uomo camminava in mezzo alla strada, pallido. Aveva i libri in una grande borsa scura, pesante.
Una donna gli tirò dietro un libro che aveva avuto poco prima. L’uomo s’abbassò a raccoglierlo senza voltarsi. Una pietra scagliata da un ragazzo lo colpì nella schiena. Accelerò il passo, seguito dai ragazzi a distanza. Ciascuno aveva in mano una pietra. Tra quei ragazzi c’ero anch’io.
La sera, alla benedizione eucaristica del mese mariano, il parroco ci lodò, perché avevamo difeso la trincea della parrocchia.
Sembra nulla; ma a distanza di quarant’anni, e particolarmente stasera, quella scena acquista un valore ed una gravità tutta nuova.
Non mi sono mai confessato d’aver tirato un sasso dietro ad un uomo indifeso, e per zelo religioso. L’episodio si iscrive in un mondo che accettava simili cose, senza vederne tutta la malvagità.
Ma a distanza di mezzo secolo le cose sono cambiate.
C’è nell’aria qualcosa di nuovo. Un soffio dello Spirito anima l’universo intero. Un mondo vecchio muore e un altro nasce. Altra sensibilità, altre esigenze, altre forze. Siamo all’alba di un’epoca marcata da un gran desiderio d’amore e di pace tra i popoli e tra gli uomini.
La verità e la carità sono in marcia di nuovo per incontrarsi; e il rispetto della persona umana è diventato il ritornello, il canto di tutte le genti.
Un senso ecumenico scioglie i nodi più complicati; e un desiderio di conoscerci e di capirci supera di gran lunga la tentazione di rimanere chiusi nella vecchia cittadella della nostra presunta verità […].
* * *
Abdaraman, mio piccolo e caro Abdaraman, non temere; ci ameremo ancora e ci incontreremo; e..non solo in Paradiso».
Questa speranza suona come profezia ancora non realizzata, ora che il non-dialogo e la violenza intollerante sembra ancora una volta invadere il mondo e creare quei muri-inferno con cui tentiamo di difenderci e difendere la nostra presunta verità. Chissà quanti anni ci vorranno ancora prima che Carlo Carretto e Abdaraman (sarebbe curioso sapere se ancora in vita) dovranno attendere per incontrarsi e amarsi, senza necessariamente attendere il paradiso come termine finale. •