Mons. Rocco: non direttive o programmi, ma discernimento
Nel ringraziare tutti voi per la partecipazione così numerosa a questo Convegno, rinnovo la mia gratitudine anche per aver condiviso il bel momento di vita ecclesiale dello scorso 30 settembre, giorno dell’imposizione del pallio. Il pallio dice da un lato il rapporto stretto con il Papa, dall’altro il legame con il popolo, nel segno dell’agnello che il pastore pone sulle spalle: aiutatemi ad essere e a fare il vescovo, che non solo deve amministrare, coordinare riunioni e firmare documenti ma è pastore evangelizzatore nella liturgia, nell’azione pastorale, nella vita quotidiana. Nell’abbozzare un bilancio di questi primi dieci mesi di ministero episcopale, ricchi di emozioni e di relazioni tra le persone, ringrazio il Signore per avermi condotto qui, in una diocesi bella, impostata, solida nella fede e ricca di storia pastorale da cui ho tanto da imparare.
Da questa Assemblea non sono da attendersi direttive o programmi pastorali, nel senso di indicazioni sistematiche. Piuttosto è un’occasione di discernimento comunitario che va continuamente esercitato, in ascolto del mondo in cui viviamo e dello Spirito. Nello stile sinodale che ha preparato questo evento continueremo ad interrogarci sull’annuncio gioioso del vangelo, accogliendo suggerimenti, sperimentando percorsi e cantieri pastorali che via via ci porteranno ad una sintesi più matura del nostro essere Chiesa nella terra che ci è stata donata.
Il Papa invita “tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità” (Evangelii Gaudium, 33). È una missione che si può vivere solo all’interno del Popolo di Dio, che insieme annuncia il Vangelo (EG 111). Ecco perché lo stesso ministero del vescovo va compreso e vissuto in questa Chiesa in uscita, cioè in stato permanente di missione. La risposta personale alla missione è fondamentale e non è appannaggio privato né di gruppi ma di tutta la nostra Chiesa locale di Fermo.
Chiesa in uscita: innanzitutto come stile, sguardo, prima ancora che realizzazione di iniziative, a partire dalla realtà e dalla concretezza della propria fede: “ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù” (EG 120). E se ognuno di noi ha continuamente bisogno, a sua volta, di essere evangelizzato, questo non significa rinunciare alla missione. “La nostra imperfezione non dev’essere una scusa; al contrario, la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere” (EG 121).
Cosa annunciare? Certo, percepiamo quanto sia da accrescere la conoscenza dottrinale ma prima della dottrina va rafforzata la passione nel trasmetterne la bellezza per renderla attraente. Va ripreso il primo annuncio anche se viviamo in una terra di antica evangelizzazione: il Kerygma del Signore morto, risorto e vivente, che ha la forza di pro-vocare e muovere a conversione perché siamo amati e redenti da Lui. E questo va proclamato nella gioia e in vista della gioia, ci ricorda Giovanni: Ciò che abbiamo udito, veduto, contemplato e toccato, il Verbo della vita che si è fatto visibile lo annunciamo perché la nostra gioia sia piena (cfr. 1Gv 1).
Non tutte le verità hanno la stessa importanza, perciò ritorniamo ad annunciare ciò che è essenziale. Sicuramente “la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5, 6), ci ricorda Francesco (EG 37), citando Tommaso d’Aquino. Tutte le virtù sono al servizio dell’amore. Francesco ci invita a misurare la crescita della fede conseguente all’evangelizzazione, non attraverso la crescita dei dati di conoscenza a disposizione ma dall’amore al prossimo (EG 161). In questo si misura la maturazione personale e comunitaria. Spesso sa donare la propria vita anche chi non ha la solidità degli studi teologici.
S. Paolo, in 1Cor 12, parla di noi come corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte (vv. 27-31): “Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte”. Non a caso, a queste riflessioni sui carismi ecclesiali, segue il cosiddetto inno alla carità (v. 1Cor 13), che compendia tutta la vita della Chiesa.
Nella terra che abitiamo vogliamo cogliere i semi di ciò che è buono senza aver timore di spingerci in spazi che potrebbero sembrare “inquinati”, dove invece si attende un annuncio di misericordia. Vogliamo farlo in dialogo con gli uomini di buona volontà, di cultura, delle istituzioni che con la loro esperienza e competenza danno alla Chiesa un aiuto prezioso. In questa direzione chiedo ai laici, soprattutto, di attivarsi per individuare le frontiere verso le quali spingerci.
L’annuncio è di tutto il popolo. L’angelo ai pastori annuncia una grande gioia (il vangelo) che sarà di tutto il popolo (cfr. Lc 2, 10). Per questo vanno coinvolti non solo preti e consacrati, non solo i classici operatori pastorali ma stili e carismi diversi, includendo gli “imperfetti”, che magari disturbano schemi e strutture prefissati. Lasciamo che lo Spirito agisca e faccia sorgere carismi per l’evangelizzazione spontaneamente dal popolo di Dio. In capo al vescovo, poi, risiede il discernimento non tanto sul carisma quanto sull’uso: se favorisce o rompe l’unità nella comunità, se è orientato all’evangelizzazione, se si inserisce docilmente nella dinamica ecclesiale. Il ruolo delle aggregazioni ecclesiali, così attive nella nostra diocesi, è decisivo. Chiedo ad esse di avere il coraggio di ripensare schemi e percorsi nella direzione che stiamo tracciando, senza mortificare l’intuizione originaria che le ha generate.
Annuncio che conduca all’esperienza ecclesiale: penso a quanti, ufficialmente battezzati, cercano esperienze altrove, spesso gratificanti sul piano individuale e spirituale. Quanta fatica nel far comprendere e vivere la dimensione ecclesiale. Per questo, sicuramente il rapporto da persona a persona è prioritario rispetto all’organizzazione e alle strutture. Il ruolo della comunità parrocchiale, che sa farsi grembo accogliente di ogni cammino di ricerca, rimane insostituibile per favorire l’inserimento nella comunità e far sperimentare la bellezza della Chiesa. E come il grembo si adatta al dono che riceve, così alle nostre parrocchie è chiesto di adattarsi alle esigenze di questi inediti cammini formativi.
Annuncio che espliciti la rilevanza sociale della fede: senza di essa l’esperienza cristiana viene relegata nel recinto intimistico e individuale e ci “dimentichiamo dei poveri”, in tutti i sensi, anche in ambito sociale e politico. La gratuità, in tale ambito è un valore da difendere e promuovere, per evitare che il nostro servizio sia condizionato e quindi inaridito dalla disponibilità di risorse economiche.
In conclusione, affido le prospettive future della nostra pastorale al lavoro sinodale che, specie attraverso le vicarie, gli uffici pastorali e le aggregazioni laicali, ci attende:
– Continueremo il lavoro di discernimento comunitario, coinvolgendo specialmente i giovani, in attesa delle indicazioni che il Sinodo ci fornirà
– Penseremo percorsi e “cantieri” pastorali per esperienze di chiesa in uscita
– Oseremo percorsi formativi in campi che abbiamo trascurato: fragilità nel sociale, famiglia, identità sessuale…
Lo Spirito agisce, spesso rompendo ogni previsione; perciò non siamo angosciati dai risultati… Niente si perde di un lavoro fatto con amore. Non accada a noi di ragionare al passato come i discepoli di Emmaus: “speravamo…”: la speranza non va coniugata al passato ma al futuro. La Parola e l’Eucaristia ci accompagnino nel cammino, sotto la protezione della Vergine Maria. •
+ Rocco Pennacchio