Lavoratori dello spettacolo, dello sport e del turismo in difficoltà per le misure anti-covid.
“Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11)
Non prenderti pensiero! Non intendo entrare nei meandri biblici o teologici del profeta Isaia!
Mi è venuta in mente questa citazione pensando, di buon mattino prima delle luci dell’alba, alla notte ormai trascorsa.
Più che su Isaia, emergono alcune sensazioni a metà strada tra “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati e l’umida spianata di Tor Vergata nella notte del 19 agosto del 2000 dove Giovanni Paolo II esortava le sentinelle a vegliare, forti della Speranza.
In questi ultimi vent’anni sembrerebbero prevalenti i segni di tante incognite piuttosto che quelli legati a visioni di orizzonti illuminati di speranze ed ideali.
A questo punto mi e ti sottopongo un testo della fine del secolo scorso, recante lo stesso titolo di questo mio tentativo di pensiero (senza nessuna velleità di confronto ma solo di richiamo e di sottolineatura).
Giuseppe Dossetti, commemorando Lazzati il 18 maggio del 1994 nell’anniversario della morte, propone una riflessione sociale e politica, ma non meno religiosa, sulla fretta di cambiare le regole fondamentali della convivenza civile del nostro popolo radicate in un patto supremo e non modificabile.
Dossetti si riferiva, allora, ai vari tentativi di modifica delle norme fondamentali della nostra Costituzione e prendeva la notte della sentinella a modello evocativo dell’indifferenza morale che pervadeva ogni aspetto della vita del paese, ormai ammaliato dall’irrazionale e plebiscitario fascino del “grande seduttore” che avrebbe potuto condurre all’irrilevanza e all’annullamento della stessa forma democratica.
Scendo da questo piano altissimo di riflessione a cui non è abituato il mio palato cognitivo, più attratto dal ciauscolo che dal caviale, per esprimere qualche pensiero in libertà e, spero, in leggerezza.
Tra gli “andrà tutto bene!” e i “nulla sarà come prima”, scorre un fiume di retorica interessante ed interessata. In questo momento di drammatica crisi e incertezza, una cosa sembra opportuna al pari di chi è nelle sabbie mobili: non agitarsi e cercare un appiglio che non ti molli a metà del guado.
Fare ciascuno il proprio dovere non è una raccomandazione moralistica ma pragmatica. È altrettanto vero che questo dovere non è un atteggiamento da assumere con la benda sugli occhi e i tappi alle orecchie; anzi! Occhi per guardare al di là dell’ovvio e orecchie per ascoltare i tenui suoni del silenzio sono strumenti per riconoscere e interpretare questo dovere.
Dopo un secolo, il XX, trascorso sul filo delle guerre genocide, dei campi di concentramento, dei gulag, dello sfruttamento indiscriminato di terre e popoli, siamo approdati ad un tempo, quello attuale, dove (forse) la misura è colma e la terra è percorsa da un virus devastante che si chiama “uomo”. Aver ridotto l’economia a finanza, la politica a potere, le relazioni a manipolazioni, ci ha reso dei parassiti letali a noi stessi. In questo senso vanno compresi le urla, i gesti eclatanti e le intemperanze esagerate di tanta parte dell’umanità: è il tentativo di sopravvivere alla forza soverchiante e fortemente ingiusta di una omologazione forzosa e artificiale che sviluppa modelli e scenari distopici come un male necessario che legittima un grado di sacrificio altissimo nell’esercizio dei diritti e delle libertà.
Un’ampia offerta di arti figurative e non, letteratura, cinematografia e ludografia, interpretano questa sindrome da mondi futuri indesiderati e temuti di origine “Orwelliana”.
Quante volte avrai sentito titoli che da “La fattoria degli animali” a “1984” sono stati ispirati con più o meno successi editoriali? … “Blade Runner”, “Hunger Games”, “Assassins Creed”, …
Ma una dimensione del vivere individuale e collettivo sembra in qualche modo possedere gli anticorpi per debellare questo virus da indifferenza pervasiva.
È una dimensione che si sviluppa e cresce in ambiti di estrema libertà che partono dalla nostra mente, dal nostro spirito, e si propagano nei luoghi della libertà e nel tempo delle relazioni interpersonali autentiche (cioè che stanno in piedi da sole, senza condizionamenti).
Il cosiddetto Tempo Libero, cioè privo di quelle preoccupazioni ed occupazioni causate da necessarie incombenze del quotidiano, rappresenta un habitat congeniale alla crescita delle migliori (ma anche peggiori) attitudini congenite all’umano più autentico. Qualcuno anni fa lo definiva “un’invenzione del consumismo” proprio per sottolineare che stiamo trattando di un habitat che ha bisogno di un habitus.
Cosa facciamo io e te del nostro tempo libero? Un mio amico, tra il serio e il faceto, risponde: “vado a ritrovare me stesso”. Mi sono sempre domandato se avesse piena coscienza della profondità della sua intenzione e mi sono sempre risposto che la saggezza passa per vie a volte misteriose ma sempre efficaci.
In un tempo liberato dall’affanno causato dalla performance esistenziale, tutt’al più possiamo esercitare la performance agonistica, come nelle attività sportive.
In un tempo liberato possiamo ritrovare quell’otium che, privo delle necessità del negotium, ha la capacità di elevare lo spirito affinché abbia la forza di orientare anche lo stesso ineluttabile negotium.
In questo senso potrebbe essere letta la forte richiesta di apertura di biblioteche, palestre, cinema, piste da sci, luoghi della cultura e dell’aggregazione sociale in genere che oggi soffrono maggiormente le misure di restrizione.
Tuttavia sarà necessario che tu mi aiuti ad individuarne la vera intenzionalità: è un timore che venga meno l’habitus oppure c’è un’infiltrazione delle necessità negoziali che soggiorna strutturalmente in questo habitat?
Ambedue le situazioni hanno ragione di esistere, mi dirai. E io sono perfettamente d’accordo con te.
Ormai l’habitat del tempo libero è divenuto strutturale nella vita dell’umanità (anche se con gradi e diffusioni diversi) ed è divenuto ambito economico rilevante. A questo habitat vanno solo riconosciuti concretamente quei “ristori” che lo fanno sopravvivere.
È necessario ed urgente ripensare il baricentro esistenziale dell’umanità e non solo mettere qualche pezza strategica al consenso mascherato di perbenismo.
In generale va rifondata una ragione che metta l’aspetto culturale (col K maiuscolo teutonico) fuori dalle attenzioni residuali, a partire dalla scuola, l’università e la ricerca come vertici di una costruzione che ha solide fondamenta solo nella necessaria pervasività in ogni fascia culturale, sociale, geografica ed economica dell’unica umanità.
Sento fortemente il bisogno di non fare questo percorso da soli, o peggio di farlo solo interiormente. Credo che ogni sforzo di guardare al di la del muro resterà vano se tu non sarai disposto a salire sulle mie spalle, e viceversa. Veramente tutti e due, forse, abbiamo bisogno di guardare al di là del muro senza cadere nell’inganno di fantasticare sulle ombre e sui rumori di là provenienti.
… sto già preparando la scaletta, come facevo da bambino, con le dita delle mani incrociate! •