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Il tempo degli auguri tra essenzialità e raccoglimento

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“Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo.”
(Gen 28, 16)

Queste sono le parole che pronuncia Giacobbe dopo aver trascorso la notte in un luogo dove ha fatto esperienza di Dio che lo riconosce come destinatario delle sue promesse e gli garantisce che la terra, sulla quale ha pernottato da forestiero, sarà sua e della sua discendenza, innumerevole come la polvere della terra e benedetta.
Più volte, provocati anche da Papa Francesco, ci siamo detti che l’errore più grande potrebbe essere quello di sprecare questo tempo particolare di sofferenza che con l’intera umanità stiamo attraversando. L’unico modo per non sprecarlo è rivivere la stessa esperienza di Giacobbe: riconoscere che in questi mesi segnati dalla pandemia, che in questo Natale nelle restrizioni e unico in questo senso, è presente il Signore, si manifesta, anche per chi non ha dei “credo” particolari, una verità particolare sulla nostra vita, è contenuto il germe di una possibile storia nuova all’insegna della solidarietà.
Qualche giorno fa, in un’intervista, una virologa affermava che questo virus ci conosce meglio di quanto noi ci conosciamo; soprattutto conosce profondamente i nostri punti deboli, i “vuoti” di difese o di forza nei quali egli può inserirsi e attaccarci. Misurarci con questa forma virale, al cospetto della vita intelligente da alcuni definita come “stupida”, il cui unico scopo è replicarsi come parassita consumando la vita nostra, significa avere un’occasione unica per smantellare i nostri miti dell’efficienza e dell’invulnerabilità e riscoprirci radicalmente fragili. Da qui un nuovo inizio per le scelte politiche e sociali, per il nostro modo di vivere le relazioni interpersonali, per il nostro modo di impostare le relazioni educative: aver cura e accompagnare la fragilità.
Noi siamo stati, anche in questo tempo, cercatori del sacro, cacciatori di riti a tutti i costi, con la tentazione di cercare il sacro in manifestazioni straordinarie e potenti, e con la tentazione di sentirci titolati ad alzare la voce e ad imporre i nostri diritti “religiosi” sulle misure prudenziali adottate a tutela della vita.
Questo tempo ci ricorda, invece, in sintonia con il mistero del Bambino che viene dato alla luce in un’umile mangiatoia, che è sacro ciò che è fragile, vulnerabile, e che è allo scopo della sua cura che deve prendere forma ogni ritualità. Alcune ritualità si sono inserite nella nostra vita in questo tempo, per la tutela della salute nostra e altrui: l’impiego della mascherina, l’igienizzazione frequente delle mani … . Probabilmente, conclusa l’emergenza sanitaria, spariranno. Sarebbe però una sconfitta per noi se ci dimenticassimo che i riti autentici sono quelli che sorgono, nella liturgia e negli ambienti della vita, per la cura della vita fragile.
In secondo luogo Giacobbe eresse una stele nel luogo dove aveva pernottato e la consacrò, per ricordare che in quel luogo aveva fatto esperienza di Dio. In questo Natale ognuno di noi potrebbe consacrare un “altare” a memoria dell’esperienza di Dio o della verità fatta in questo tempo di emergenza. Con che cosa costruire questa stele? Una parrocchia della nostra diocesi, che ha colto in questi mesi di emergenza l’occasione per rivedere l’impostazione dei percorsi di iniziazione alla vita cristiana per fanciulli e ragazzi, ha chiesto a costoro di raccontare un fatto bello in cui hanno dato il meglio di sé. Noi possiamo fare altrettanto: raccogliere e imprimere nella nostra memoria fatti in cui gli uomini e le donne di questo tempo hanno dato il meglio di sé, della propria umanità. Dove cercarli? Essendo questo giornale letto soprattutto da persone impegnate nella vita delle parrocchie o delle realtà ecclesiali, la tentazione è di andare a cercarli nella vita interna di queste realtà.
Questo tempo forse ci chiede un’inversione di tendenza, anche perché per quanto riguarda le proposte parrocchiali ed ecclesiali abbiamo dovuto molto autolimitarci.
Forse è giunto il tempo di cercare questi “segni dei tempi” fuori dai confini logistici delle nostre parrocchie, negli ospedali, nelle RSA, nell’esperienza della sofferenza, nelle reti di solidarietà nate a tutti i livelli nei nostri territori anche con noi e grazie a noi, nell’impegno educativo, didattico e di apprendimento degli insegnanti e degli studenti di questo tempo. Da Gesù sono accorsi i pastori e astrologi stranieri dall’Oriente. Chi è rimasto intorno al tempio o alle istituzioni religiose del tempo non si è accorto della sua venuta.
Infine avremmo sprecato questo tempo se l’unica nostra aspettativa fosse quella, appena conclusa l’emergenza sanitaria, di ritornare a fare le cose che facevamo prima nello stesso modo. Questo tempo ci chiede forse un impegno opposto: ripensare la vita che conducevamo prima della pandemia, individuare le sue forme patologiche, provare ad immaginare insieme una vita nuova, dai macro – livelli dell’economia, della politica fino ai micro – livelli delle nostre relazioni interpersonali e del nostro stile di vita personale, compresa la vita delle nostre comunità cristiane.
Occorre trovare la forza di vincere il fascino delle abitudini per reinventarci secondo un’antropologia della fragilità e per una globalizzazione che, oltre all’interdipendenza economica, ci riveda legati nella solidarietà.
Un capo Agesci ci raccontava di una frase di un suo ragazzo, che cercava di esprimere la sua esperienza di questo tempo: mi sembra di essere come in un’escursione in montagna, nell’ultimo tratto faticoso e in salita. Saremmo tentati di fermarci, di mollare, di tornare indietro ma sappiamo che, se abbiamo la perseveranza di fare gli ultimi e più faticosi passi, potremo giungere in vetta e contemplare uno splendido spettacolo e provare una grande gioia. Il Natale ci rinvia del resto al mistero della nascita e alla necessità di rinascere. Per questo carissimi amici della redazione, e carissimi lettori e lettrici, buon Natale a tutti! •

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