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Riprendere, riprendersi

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L’attore Stefano De Bernardin: un lavoratore dello spettacolo di questi tempi.

Premetto che il seguente soliloquio è adatto a chiunque faccia dell’arte il proprio lavoro e che non ho ancora sufficientemente chiaro in che fase della pandemia ci troviamo. Monologherò come se fosse oggi il ricordo di ieri e il pensiero di domani.

Alla fine della quarantena di primavera, mi ritrovai in uno di quei gineprai da cui si deve assolutamente uscire. Si intravedeva all’orizzonte confuso degli eventi la possibilità di una ripresa. Di poter riprendere la propria professione con i dovuti accorgimenti e quindi di riprendersi: dall’esilio forzato, dalla congestione creativa, dal personale dissesto economico. Mi misi decisamente a lavoro. Sarebbe stato semplice, sarebbe bastato dare la stura ad un otre gonfio di idee e di necessità. Ovviamente la fuoriuscita del materiale a lungo contenuto e compresso fu eccessiva e dovetti procedere ad una scrematura. Ma non c’erano problemi, pur con le limitazioni di un’emergenza si potevano fare cose, si poteva dare vita all’atto creativo, solo all’apparenza povero, ma sempre generoso, come sempre generosa è l’arte per sua natura.
Se pensate che “la cultura non si mangia”, convincete tutti quelli che, dopo essere rimasti chiusi in casa ad ingannare il tempo con musica, film e libri, erano rimasti con l’appetito per una cucina casalinga e gustosa, dopo mesi di surgelati e merendine. Sì, perché, fuor di metafora, andare al cinema, a teatro, a un concerto comporta l’uso di quel senso di vita e scambio sociale, che la clausura aveva attutito, in maniera anche pericolosa.
Sono un artista di arte vivente, che accade cioè nel momento in cui viviamo e che per molti (più di quanto si pensi o pensino loro stessi) è necessaria a vivere. Semplicemente. Un artista, dicevo, che di quell’arte ci vive e ci mangia e che, mosso da più fami, tra cui quella reale, ha cominciato a riprendere e a riprendersi.
Il periodo successivo alla quarantena era il momento dell’aria aperta e ho potuto congegnare qualche soluzione per banchettare con il mondo. E ha funzionato. A volte anche meglio della vecchia maniera. Sapete, le necessità fatte virtù conducono spesso alla qualità, la costretta nudità diventa poetica povertà e credo di poter affermare di aver fatto del teatro francescano, efficace, senza fronzoli, realmente dissetante. E la società rispondeva, il pubblico c’era, forse più selezionato, ma non sempre è un male (non credo di essere un elitario, continuo a pensare che l’arte debba educare il più trasversalmente possibile, ma tant’è, c’è sempre qualcuno più educato di qualcun altro).
Andava tutto bene e si sperava potesse andare meglio. Si temeva anche potesse andare peggio, ma sono un ottimista della volontà. Ora, nel cuore dell’autunno quando scrivo queste righe, si ri-presentano problemi di approvvigionamento culturale, proprio nel periodo del raccolto, delle conserve, dell’assortimento della dispensa. Che fare?
Una delle soluzioni che sto applicando è quella di “fare come se non”, effettuo una rimozione freudiana e procedo con il mio procacciamento continuo di lavoro, apro la stagione e programmo come se non dovessi mai morire. Purtroppo il mio livello di consapevolezza conscia è troppo alto, precipita nella nevrosi del precariato che si aggiunge alla dittatura del precariato che è parte integrante del mio lavoro e che manifesta nella piazza della mia anima al grido di “ma chi me l’ha fatto fare”.
A termini di legge, periodicamente decretati, il mio luogo di lavoro è un universo concentrazionario di infezione. Ma questa è facile polemica qualunquista, lo ammetto. Solo che ci sono altri universi che pur concentrando azioni potenzialmente pericolose, non subiscono la stessa sorte. E allora, marciando sul momento qualunquista (detestabile sempre), mi viene da pensare che, forse, ma è solo un’ipotesi, della cultura non frega niente a nessuno.
Portando l’analisi suddetta ad un livello più degno, direi che proprio non gliene frega niente a nessuno! Chiedo scusa, ma non trovo altro modo e altri motivi per uscire da questa impasse, perché proprio non ci sono: è solo una questione di interesse pubblico e privato. In questa endemica e ontologica mancanza di sensibilità politica (nel senso della polis) mi trovo solo d’accordo nel fatto che la mia professione si è trovata ad agire in un contesto di beni di lusso. Ma, vi giuro, non è colpa mia.
Torniamo seri, perché la cultura è una cosa seria.
Ridurre i posti nei teatri lo possiamo fare. Qualcuno lo ha fatto anche in maniera persino elegante, ristrutturando platee in stile minimalista, gestendo i vuoti con gusto e riducendo la sensazione di vuoto, che non sembri vacuo ma arioso. Io personalmente mi accontento anche delle sedute alternate, dei palchi monoposto o solo per congiunti, ma vorrei venisse fatto tutto con le giusto proporzioni: il numero massimo di 200 posti come direttiva standard è solo un segnale di disinteresse incompetente.
Sono convinto che non sarà per sempre, ma esercitiamoci a gestire le emergenze (sono un pessimista della ragione) con il frutto dell’intelligenza, per favore.
Mi verrebbe sennò in mente la prospettiva di Valentin, autore di cabaret tedesco degli anni Venti, che ventilava, per amore della statistica, di risolvere il problema di portare la gente a teatro costruendo un milione di teatri da un posto solo.
Non mi fermerò, sappiatelo, non posso farlo. Non ho l’età, né la possibilità di fare un altro mestiere. Quello che faccio lo faccio per amore, e l’amore non si può arginare, confinare. Ogni volta che un attore sale su un palco fa o dovrebbe fare un atto d’amore complesso e completo.
Chi assiste nel buio di una platea lo sa e lo apprezza, anche quando sembra disprezzarlo, perché si sa, l’amore, quello profondo e insondabile, è una spada che può anche dividere gli amanti, allontanare i figli dai padri, affinché si compia. Mi voglio permettere: esercitare quest’arte vivente, lavorare in teatro, è una eucarestia.
Riprenderemo, mi riprenderò. Ma voi, che al tepore e all’intimità delle vostre dimore ora ci guardate e ci ascoltate nel nostro lamento di agnelli smarriti (o di lupi affamati!) e che tanto significate per noi quando venite a guardarci ed ascoltarci nelle nostre umili capanne travestite da palazzi, voi, non ci abbandonate, combattete affinché quello che adesso sembra non mancarvi, quando vi mancherà non sia troppo tardi. L’intero movimento dell’universo avviene perché continuamente qualcuno racconta. Permetteteci di nuovo di raccontare. •

Stefano De Bernardin

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