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Luigi, il padre della presenza quotidiana silenziosa e discreta

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Nel racconto del figlio Raimondo l’amore per un uomo esemplare che in silenzio e nella preghiera rappresenta il faro della famiglia.

Era scoppiato in modo del tutto imprevisto l’immane primo conflitto mondiale. Chi viveva del lavoro nei campi non sapeva niente di Sarajevo, dove il 28 giugno 1914 l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando era stato assassinato dallo studente serbo Gavrilo Princip. Un mese dopo, il 28 luglio 1914, l’impero austro – ungarico dichiarava guerra al regno di Serbia. L’Italia si mantenne neutrale ma per poco, fino al 24 maggio 1915: “Il Piave mormorava / calmo e placido al passaggio / dei primi fanti, il ventiquattro maggio. / L’esercito marciava / per raggiungere la frontiera / per far contro il nemico una barriera” (La leggenda del Piave, testo).
Giuseppe, mezzadro, già sposato e con tre figli piccoli fu richiamato alle armi, destinazione l’Isonzo prima, il fronte del Carso poi, dove, per un congelamento, gli venne subito amputata una gamba e mandato nei diversi ospedali, l’ultimo dei quali, quello di Macerata. Luigi, l’ultimo nato, era in braccio alla mamma lungo la ferrovia che sovrasta la casa in collina, poco lontana dalla stazioncina di San Claudio, comune di Corridonia. La mamma sapeva che sarebbe passato il treno militare, si fece trovare all’appuntamento. Alzò con le braccia il bambino che salutò con le manine il papà, affacciato dal finestrino del treno in corsa.
Giuseppe ritorna invalido dal fronte. Continua come può il lavoro nei campi assieme agli altri fratelli. Il terreno è quasi tutto in collina, solo qualche ettaro è al di là della strada ferrata, nella fertile pianura del Chienti. L’attraversamento della strada ferrata è regolato da un passaggio a livello. Le sbarre, comandate a distanza, si aprono e si chiudono al passaggio dei treni. Le attività agricole sono quelle di sempre. Si ara il terreno, si semina, si raccoglie il grano, si vendemmia. Ma la terra è poca per sfamare tante bocche. Sotto lo stesso tetto abitano più nuclei familiari.
Intanto Luigi, diventato grandicello, frequenta le prime tre classi della locale Scuola Elementare. In casa non si annoia di certo. Ha un fratello più grande di lui di tre anni. Col tempo sono arrivate cinque sorelle. Non gli mancano poi i cugini di ogni età, che vivono con lui in casa, con i quali gioca assieme o frequenta, poco e solo di sera, diventato giovanotto, il bar situato nella piccola frazioncina addossata alla stazione di San Claudio. Ma la storia galoppa. Nella casa in collina sono in troppi. Due zii decidono di partire per l’Argentina, un altro trova un’altra sistemazione per la propria famiglia. Giuseppe si rende conto che non può rimanere da solo a lavorare tanta terra.
Il figlio più grande va in cerca di un terreno da lavorare come mezzadro e lo trova a Santa Lucia, frazione di Morrovalle. È il mille novecento quaranta, quando un uomo grida da piazza Venezia in Roma “Che l’ora delle decisioni irrevocabili batte sui cieli della nostra patria”. Era la dichiarazione di guerra. Luigi vi partecipa come soldato, prima sul fronte greco – albanese, poi in Africa Settentrionale, di nuovo in Italia, quando l’armistizio dell’8 settembre 1943 lo coglie a Cisternino, in provincia di Brindisi. Entra nel Corpo Italiano di Liberazione e risale la penisola combattendo contro i tedeschi. Da militare ritorna a casa con una cronica asma bronchiale che lo accompagnerà per tutta la vita. L’aveva contratta sul monte Tomorr, sul fronte Greco – Albanese.

San Claudio, casa di mio nonno paterno, la ferrovia in basso (Foto R. Giustozzi)

Passata la bufera, Luigi torna nella sua nuova casa di Santa Lucia, dove vivono il papà Giuseppe, la mamma Teresa, il fratello più grande Alberto con moglie e figlia piccola, due sorelle, le altre tre si sono già maritate. Trova una ragazza. I due si sposano e hanno due figli, il primo nato nel mille novecento quarantanove, il secondo nel mille novecento cinquantadue. Alberto e Luigi, due fratelli, sposati a due sorelle vivono assieme, sotto lo stesso tetto, per circa quarant’anni. Condividono assieme gioie e dolori, nella serenità del lavoro e del timor di Dio. Sono persone semplici. Non nutrono nessuna invidia verso nessuno. Si accontentano di quello che hanno e se possono lo condividono anche con altri. Sono padri e mariti esemplari, stimati dai vicini di casa. Il papà Giuseppe, grande invalido, muore negli anni della Asiatica. Si sposano anche le altre due sorelle. Le due famiglie si assottigliano ancora quando l’unica figlia di Alberto si sposa anche lei. I due ragazzi crescono anche loro. Trovano nel papà e nella mamma ma anche nella zia e nello zio, nonché nella anziana nonna paterna, tanto affetto e sostegno.
Il papà Luigi è tenero e affettuoso verso i due figli, non meno della mamma. D’estate, dopo il pranzo di mezzogiorno, si butta sul letto per riposare. Dorme alla supina. Prende i due bambini sulle proprie braccia stese, uno da una parte, l’altro dall’altra. Nonostante siano passati tanti anni e i due ragazzi siano diventati grandi, sposati, con figli, uno con nipoti, ricordano ancora questo gesto carico di affetto. Il più grande dei due fratelli, rimaneva sempre con un groppo alla gola ogni volta che vedeva suo papà prendere la bicicletta per recarsi nel vicino paese per andare, così come lui diceva, all’udienza dal fattore. Era una vecchia Legnano con i freni a bacchetta.
Era già buio quando il papà partiva da casa. Al più grande era rimasto il ricordo di quando, piccolino, a notte inoltrata, aveva visto arrivare la mamma dentro una macchina. Aveva avuto un incidente, ad un incrocio, mentre ritornava dalla visita alla nonna materna. Ogni volta che lo vedeva partire, temeva sempre che gli capitasse qualcosa di simile. Il paese non era lontano, ma d’inverno sembrava ancora più distante. Macchine non ne passavano poi tante, ma la paura rimaneva. Si preoccupava di controllare i freni, se funzionavano la luce ed i catarifrangenti posti sulle pedivelle.
Luigi è mio papà, l’ho perso nel 1988, quando ero ancora in Brianza. Mi accompagna sempre un grande dolore nella mia vita. Sono stato sempre fuori casa dalla fine della Scuola Elementare in poi. Nonostante questo però, mio papà mi ha sempre incoraggiato a studiare e a seguire la mia strada. Eravamo anche su un piano di complicità. Avevamo dei segreti condivisi. La casa di Santa Lucia è stata per me sempre la casa dei ritorni. Ho imparato a memoria la poesia, che ripeto sempre a me stesso, per esercitare la memoria: “Piazza Navona… Ma ai morti non è dato di tornare, / e non c’è tempo nemmeno per la madre / quando chiama la strada, / e ripartivo, chiuso nella notte / come uno che tema all’alba di restare…” (Salvatore Quasimodo, I ritorni).
Mio papà era “L’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà” ( Papa Francesco, Lettera Apostolica Patris Corde, Roma, 8 dicembre 2020). Leggendo tutta la lettera di Papa Francesco, dedicata alla figura di San Giuseppe, papà di Gesù, ho trovato tanti tratti comuni a quelli di mio papà e di tutti qui padri che stanno apparentemente nascosti o in seconda linea, ma proprio per questo hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza”. Sono padri della tenerezza, dell’obbedienza, dell’accoglienza, del coraggio creativo.
È una piccola storia minima, quella che ho raccontato, ma proprio perché minima vera e comune a tante altre. La Storia è fatta dalla somma di tante piccole storie.
Nel testo ho parlato di mio papà, di mia mamma, di mio fratello Gabriele che abita e vive a Morrovalle, di mio zio Alberto, di mia zia Nerina, sorella di mia mamma Amalia, di mia cugina Gabriella, di mio nonno Giuseppe e di mia nonna Teresa. Mia mamma, persa nel 2017, l’ho ricordata nell’articolo la casa di mio nonno (La Voce delle Marche, 26 ottobre 2017). Mia nonna Teresa, la nonna paterna l’ho persa nel settembre del 1975, un mese prima della mia laurea.
Quando presi, nel primo pomeriggio, la corriera di Perogio che disimpegnava il servizio Civitanova – Montecosaro – Morrovalle – Macerata, dissi a mio papà che andavo a discutere la tesi, mi rispose con un “Ti possa andar bene, figlio mio”. •

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