Non cercarmi più
Dietro questa parete di vento e nebbia
Non chiamarmi forte
Colle tue labbra di sale e di memorie.
Guarda, come una pietra bianca
Io dormo fra i solchi bruni del mio cuore
E la zingara pioggia di autunno
Batte il cembalo azzurro sulle foglie.
Domani ritornerai
e mi troverai sulla collina
Colla mia fionda rossa
A colpire il crepuscolo
in un clamore d’allodole
Di là dalla dolce riva che ci separa
Riudrai cantare nel verde grano memore
Il cigno della nostra infanzia vissuta.
L’incanto, del resto, è esemplarmente espresso nel Congedo che chiude Poemetti, senza rinnegare niente della ispirazione universalistica che passa per i versi di Matacotta e niente dei suoi furenti ed appassionati ideali di uomo e di politico, chiamato a realizzarsi in un momento non facile, come fu quello della Liberazione e quello del primo tormentato dopoguerra.
Un gesto chiede il cielo, che nell’ombra
Delle cose mi chini e oda il quieto
Cuore del tempo, ch’è già sera, e dolce
Di cadenti cavalli l’aria imbruna
E mute foglie parlano parole.
Ma del mio pianto memore non torni
La luce del giorno e nuovi campi ed erbe
Porga al mio sguardo e chiare acque a questo
Disadorno silenzio, e un dì mi specchi
Docile e stanco nell’ultimo bagliore. •
a cura di Fabrizio Fabi