Cyberspazio: il luogo seducente della solitudine confortevole
Giorni fa il sociologo Zygmunt Bauman ha detto cose molto interessanti rilasciando un’intervista all’Espresso. “Internet rende possibili cose che prima erano impossibili. Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo – la facilità, la rapidità, la disintermediazione – porta con sé anche dei problemi. Ad esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse, quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non è un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo”. E l’incontro: l’altro che mi guarda e che io guardo, qualunque esso sia, matura perché, scomoda, costringe a chiedersene le ragioni.
Papa Francesco è arrivato a dire che la verità è un incontro.
Al contrario, internet permette, sostiene sempre lo studioso della società liquida, di non vedere e non incontrare chiunque sia diverso da te. Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina contro la solitudine – ci si sente connessi con il mondo – e un luogo di ‘confortevole solitudine’, dove ciascuno è chiuso nel suo network da cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno piacevole”. Accanto a questa “confortevole solitudine”, c’è un altro aspetto che Bauman mette in rilievo pensando alle manifestazioni di piazza, alle primavere arabe mai diventate estati. E che chiama il carnevale della solidarietà.
“Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa. Io – dice il sociologo – la chiamo carnival solidarity perché mi ricorda appunto quegli eventi in cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle cose. Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».
Proprio questo universo liquido avrebbe bisogno di qualcosa di solido cui ancorarsi. Una roccia o una rupe, come quella che anelavano i popoli semitici abituati inizialmente ad essere nomadi e abitatori di deserti, eppure “particolarmente sensibili a quel punto di riferimento che era la grande formazione rocciosa stabile rispetto alla sabbia e alla polvere che il vento muoveva e disperdeva”.
Ma quali “rocce” emergono oggi capaci di attrarre? •