Lo studio è impietoso nell’evidenziare quanto il cielo notturno abbia perso buona parte della sua visibilità in moltissime zone e l’Italia, in particolare, non ci fa bella figura. Il nostro Paese è al primo posto, in parità con la Corea del Sud, nella classifica dell’inquinamento luminoso tra gli Stati che compongono il G 20: almeno 4 italiani su 5 non riescano più a riconoscere la Via Lattea. Se vogliamo ritrovare cieli bui, è necessario andare in Paesi molto grandi e con vaste zone non antropizzate, come l’Australia e il Canada, mentre nella vecchia Europa si salvano Spagna, Austria, Svezia, Norvegia e Scozia.
Alla guida del team internazionale che ha certificato il triste primato della Penisola c’è proprio un italiano: Fabio Falchi, docente di fisica all’Istituto statale di istruzione superiore “Galileo Galilei” di Ostiglia, in provincia di Mantova, nonché ricercatore all’Istil, l’Istituto di scienza e tecnologia dell’inquinamento luminoso. Falchi è ricercatore volontario, così come su base volontaria hanno dato il loro contributo le moltissime persone che hanno collaborato allo studio fornendo dati essenziali con oltre 30mila misure di brillanza del cielo. Non c’erano solo le osservazioni del satellite americano Suomi Npp ma anche le calibrazioni effettuate a terra da migliaia di appassionati che, notte dopo notte, vedono le stelle spegnersi, soffocate da troppa illuminazione artificiale che “sporca” il cielo.
In breve, se anche le stelle ci stanno ancora a guardare, noi non siamo più in grado di ricambiare lo sguardo. È davvero triste pensare che un terzo dell’umanità sia privata della vista della Via Lattea, la strada luminosa delle stelle, la nostra galassia, quella cui, da più di 13 miliardi di anni, appartiene il sistema solare e, più giovane, il nostro Pianeta. Ci stiamo impedendo di vedere qualcosa che è alle radici stesse del nostro essere abitanti di questo universo: noi ora non stiamo vedendo le stelle come sono adesso, ma com’erano milioni o miliardi di anni fa. Guardare il cielo di notte è un modo per perdersi nella profondità del tempo e dello spazio. Non a caso numerose leggende e storie dell’origine del mondo hanno cercato di spiegare perché ci fosse quel percorso celeste notturno, una via così nitida che doveva per forza essere stata messa lì per indicarci il cammino.
Il nome deriva dalla mitologia greca: Zeus pose il figlio Eracle, nato dall’amore con una donna mortale, a succhiare al seno di sua moglie Era il latte divino per renderlo immortale. La dea però se ne accorse, e lo respinse, ma non potè impedire che il latte si spargesse per sempre sul cielo. Per gli Egizi era una controparte celeste del fiume Nilo, così come in Cina e in tutta l’Asia orientale è chiamata Fiume d’argento e in India si utilizza il termine sanscrito (e Hindi) Akasha Ganga, il Gange celeste. Infine, in Spagna e Portogallo la Via Lattea è detta il Camino de Santiago, poiché era usata come guida dai pellegrini diretti verso Santiago de Compostela, tanto che, narra una leggenda medievale, la Via Lattea fu formata dalla polvere sollevata dai pellegrini stessi e lo stesso termine Compostela deriverebbe da campus stellae.
E noi tutto questo splendore non lo vediamo più. C’è da chiedersi come avrebbe fatto Kant a formulare il suo famoso imperativo della legge morale se non avesse potuto abbracciare l’immensa grandezza e potenza del cielo stellato sopra di lui. Oppure come avrebbe potuto Dante far capire la meraviglia, il sollievo e l’incanto nel concludere il suo viaggio all’Inferno con il miracolo dell’uscire “a riveder le stelle”. E come avrebbe fatto il Piccolo Principe a viaggiare e a chiedersi con l’ingenua verità dei bambini “Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua”. E, infine, come avrebbero fatto quei tre re che un giorno si misero in cammino per seguire una stella più luminosa delle altre che indicava un bambino in una capanna? •
Emanuela Vinai