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La vocazione nella Chiesa

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Intervista a don Giovanni Frausini, docente di sacramentaria

È uscito il volume di don Giovanni Frausini «Il Sacramento dell’ordine», un saggio sulla teologia del ministero a partire dall’analisi mistagogica dei testi liturgici, edito da Cittadella nella collana “Gestis Verbisque” dell’Istituto Teologico Marchigiano. All’Autore, presbitero della diocesi di Fano e docente di teologia sacramentaria, abbiamo rivolto alcune domande.

Un dato che emerge dal suo studio sul sacramento dell’ordine è che per lei la vocazione possiede una radice ecclesiale? Non è Dio che chiama al ministero?

Certo che è Dio che chiama, ma come? Certo è Dio che consacra il pane e il vino nella celebrazione eucaristica, ma come? Non è forse attraverso la preghiera degli autorevoli ministri della Chiesa, corpo di Cristo, che noi crediamo avvenga la trasformazione della Chiesa in corpo di Cristo attraverso il pane eucaristico? Così è nella vocazione al ministero ordinato. La mediazione è sempre storica perché deve rispecchiare, da una parte, l’immutabile realtà del Vangelo, ma, dall’altra, deve essere percepita, creduta, riconosciuta dalla Chiesa qui ed ora. Per questo il ministero ordinato prevede un’incardinazione perché si è ministri in una data realtà, in un dato modo, in relazione a un popolo e a una cultura.

Il Vaticano II, in «Sacrosanctum concilium», ha iniziato una vasta opera di riforma liturgica nella Chiesa. A oltre cinquant’anni, che bilancio è lecito fare?

Vorrei rispondere a questa domanda con le parole di Romano Guadini che in una lettera scritta nel 1964, dopo aver detto che il Concilio era stato un grande evento dello Spirito, aggiungeva che la riforma dei testi liturgici sarebbe servita a poco se non si fosse fatto un grande lavoro di educazione alla liturgia. Il problema, diceva, è quello di educare la comunità all’atto di culto, un’autentica educazione liturgica perché non si cada nel teatrale o nella vacua gesticolazione. Credo che in questo senso resti ancora molto da fare. Il problema, oggi come allora, è quello di educare le nostre comunità, a partire dai vescovi, dai presbiteri e dai diaconi, all’uso del messale e degli altri libri liturgici. In poche diocesi si è fatto un lavoro serio di formazione liturgica sul campo. Spesso si diventa preti e si inizia presiedere l’eucaristia senza alcuna occasione di confronto e di dialogo. La liturgia è sempre un atto di mediazione tra il mistero e la realtà, e siccome le realtà nelle quali siamo inseriti sono nuove, diverse, mutevoli, è allora essenziale che si possa mettere a confronto la propria esperienza con quella degli altri. In altre parole: occorre formazione.

Qual è il ruolo della liturgia all’interno del percorso di studi di una facoltà teologica?

Oggi è una delle tante materie, forse troppe; credo che la liturgia potrebbe diventare un momento di sintesi vera. Si tratta di accostarsi alla liturgia non tanto come ad un rito, quanto soprattutto ad un’esperienza teologica unica. Nella liturgia troviamo sia teoria che prassi, la Parola-evento e il rendimento di grazie, l’atto di culto. Rimettere la liturgia al centro significa offrire la possibilità di una sintesi integrale in cui lex credendi, lex orandi ed anche l’esistenza concreta dei cristiani ritrovano un punto di incontro costituito dall’esperienza vera, nel mistero, della salvezza operata da Gesù Cristo.

La liturgia è stata ed è tuttora una sorta di terreno di scontro tra visioni ecclesiali diverse. Le sembra che il dibattito abbia subito una strumentalizzazione ideologica? Penso ad esempio alla «Summorum pontificum».

La riforma liturgica ha messo in discussione anche un certo modo di essere ministri. Prima avevamo le spalle rivolte al popolo, non vedevamo quello che succedeva alle nostre spalle, non ci rendevamo conto se la comunità era partecipe o meno del rito. In fondo dovevamo fare tutto noi. Ora che il soggetto celebrante è la Chiesa nel suo insieme, pur nella distinzione dei ministeri, siamo costretti a guardare in faccia i nostri fratelli e la cosa non è sempre semplice. Credo che Benedetto XVI abbia intuito molto bene questi problemi, ma forse la terapia non è quella giusta. Il rito preconciliare è frutto di una ecclesiologia diversa dal Vaticano secondo e non può convivere con esso. Bisogna tornare all’educazione liturgica come già dicevo.

Nei suoi studi, che vanno dalla teologia del presbiterio all’«ordo virginum», si osserva tuttavia un filo rosso sempre presente, che è l’attenzione alla «lex orandi». Perché ritiene così essenziale il metodo mistagogico?

La mistagogia offre la possibilità di un incontro non soltanto intellettuale con il mistero di Dio, per mezzo della liturgia, ma un incontro che coinvolge l’uomo nella sua totalità: spirito, anima e corpo. Tutto l’uomo partecipa alla liturgia e, come insegna il Concilio, per ritus et preces tutti sperimentano, ricevono, accolgono, aderiscono al mistero. Così cresce e si irrobustisce la fede.

La recente «Ratio fundamentalis» sulla formazione nei seminari possiede qualche motivo di novità e che meriterebbe un approfondimento rispetto al bagaglio della tradizione?

Il documento è ancora molto recente e quindi va approfondito, ma la prima impressione è quella di un documento che conferma quanto già detto con alcuni approfondimenti e puntualizzazioni. Da parte di molti, credo, si sente la necessità di pensare percorsi multiformi che si possano adattare bene alle diverse esigenze delle diverse chiese. Essere preti in Africa o in Europa non è la stessa cosa. Prima del concilio di Trento esistevano molte esperienze di formazione per i candidati all’ordine sacro; oggi, a mio parere, occorrerebbe tornare a una pluralità di esperienze per arricchire la Chiesa di forme diversificate di ministero. •
a cura dell’Istituto
Teologico Marchigiano

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