L’Ascolto è al cuore della conversione personale

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Premessa ecclesiologica

La Chiesa “è” nell’ascolto della Parola di Dio (il Proemio della DV)

La Dei Verbum (DV), la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del Concilio Vaticano II, mostra la sua novità rivoluzionaria fin dall’incipit, cioè dalle prime parole del Proemio: “DEI VERBUM religiose audiens et fidenter proclamans, Sacrosancta Synodus verbis S. Joannis obsequitur dicentis…” (“In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il sacro Concilio aderisce alle parole di s. Giovanni il quale dice …”). Il Proemio presenta il Concilio che parla di se stesso, che svela la sua autocoscienza e si pone come esempio per quel popolo degli “ascoltatori della parola” (secondo l’espressione di Karl Rahner) che sono chiamati a essere i cristiani. La centralità – così biblica – dell’audire, dell’ascolto, che caratterizza la postura del Concilio e dunque della Chiesa, è decisamente innovativa per l’epoca (la DV fu promulgata il 18 novembre 1965). Lì si afferma che la Chiesa esiste in quanto serva della Parola di Dio, impegnata nel doppio movimento di ascolto e annuncio della Parola di Dio: “è come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola” scrisse il teologo Joseph Ratzinger . Per essere ecclesia docens, la Chiesa deve essere ecclesia audiens. La successiva citazione del prologo della prima lettera di Giovanni (1Gv 1,2-3) annuncia il tema centrale della DV e dell’intero Concilio: la comunione. Comunione che scaturisce dalla comunicazione che il Dio trinitario (DV 2), cioè il Dio che è comunione nel suo stesso essere, fa della sua vita all’umanità e che si manifesta pienamente in Cristo. Questa comunicazione non è dottrinale, ma vitale, avviene nella storia, ha come forma e centro il Cristo, come destinatario il mondo intero e come fine la salvezza dell’umanità. Tale comunicazione è accolta mediante l’ascolto, che non opera solo la conversione del cuore del singolo, ma crea anche la chiesa (l’ek-klesía) attuando il passaggio dal gruppo sociologico al corpo di Cristo nella storia. La dimensione storica e salvifica della rivelazione, la sua dimensione cristocentrica, la sua estensione universale sono ricordate nel Proemio della DV in poche frasi che indicano il ribaltamento di prospettiva rispetto all’impostazione teologica apologetica e deduttivistica precedente. La continuità con le “vestigia”, con le “tracce” dei Concili Tridentino e Vaticano I affermata nel Proemio (“Seguendo le orme [inhaerens vestigiis] dei concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, e sperando ami”) in realtà esprime un atteggiamento molto libero nei confronti del passato, tanto che nel Proemio non viene citato in nota alcun passo dei due Concili in questione. Joseph Ratzinger affermò che a partire dal testo del Proemio “si può essere d’accordo con il suggerimento di Karl Barth di tradurre la nostra formula con muovendoci a partire dalle orme di quei concili”: seguire le tracce non significa restarvi. La tradizione vive del suo superamento, e il suo criterio di verità non è nel passato ma nel futuro, nell’eschaton, nel Regno. L’ascolto sempre rinnovato della Parola di Dio nelle varie epoche e luoghi, nelle diverse contingenze storiche ed ecclesiali, nelle diverse stagioni teologiche, è ciò che anima e rende vivo il cammino della tradizione nella storia impedendo alla tradizione stessa di fossilizzarsi. Il Proemio ha una struttura teologica significativa in quanto si apre e si chiude sulla dimensione kerygmatica e solo all’interno di essa viene situata la dimensione dottrinale. Ciò che è essenziale è ciò che la Chiesa ascolta e annuncia (dimensione kerygmatica): la dottrina non esiste scissa dal kerygma della Chiesa. L’ascolto, attitudine decisiva per la Chiesa, si trova all’inizio e alla fine del Proemio, racchiudendolo come in uno scrigno (audiens … audiendo). Il Card. Kasper, commentando questo testo della DV ha scritto: “Non può esservi migliore espressione per dire il primato della Parola di Dio su tutte le parole e le azioni del popolo di Dio” .

Premessa antropologica

La dinamica antropologica dell’ascolto

Se la vita della Chiesa sgorga dall’ascolto della Parola di Dio, l’ascolto è anche il momento aurorale e sempre da rinnovarsi della preghiera personale e comunitaria, del dialogo con Dio in cui viene rinnovato il dinamismo dell’alleanza. L’ascolto è l’elemento basilare dello sviluppo della vita spirituale così come, sul piano antropologico, l’udito è il senso fondamentale per lo sviluppo della vita del bambino, anzi, ancor prima, del feto nel ventre materno. “È facile immaginare quale evento straordinario e in ogni senso ‘commovente’ fu, per ognuno di noi, l’ascolto del battito del cuore materno: il suo inizio percettivo fu probabilmente quell’istante sconvolgente in cui il mondo, tramite l’alveo materno, ci invase e ci mosse, lacerando e distogliendo il silenzio primordiale e consegnandoci a un altro costitutivo silenzio: quello alternato col rumore e col suono. È l’udito dunque, il primo cordone ombelicale comunicativo della nostra esistenza; grazie all’udito ci separiamo dalla fusione indistinta con la carne del mondo e insieme ci teniamo pur sempre agganciati a essa”. Possiamo affermare che l’uomo è ciò che ascolta ed è anche come ascolta. Non a caso, nei vangeli, troviamo in bocca a Gesù l’avvertimento a stare attenti a ciò che si ascolta (“State attenti a quello che ascoltate”: Mc 4,21) e a come si ascolta (“State attenti a come ascoltate”: Lc 8,18). Ora, che cos’è ascoltare? Che cosa richiede? L’ascolto è un’arte e conosce diversi elementi costitutivi. Ne indico alcuni essenziali.
1. Atto intenzionale. A differenza del sentire che è meccanico, l’ascolto esige una decisione, una volontà. L’ascolto richiede concentrazione, rientrare in sé, rispettare ciò che si ascolta senza manipolare, senza interpretare arbitrariamente. L’ascolto tende a recepire ciò che l’altro dice e sente per far emergere chi l’altro è. L’ascolto impegna tutta la persona, è un essere presenti all’altro senza riserve, senza distrazioni, con piena attenzione. Nell’ascolto tento di comprendere l’altro coinvolgendomi con lui. Un ascolto distaccato, asettico, fallisce l’incontro a cui l’ascolto vuole condurre.
2. Ascolto del corpo. Anche il corpo parla, anzi normalmente il corpo non mente a differenza delle parole che mascherano, velano, offuscano o mentono apertamente. Nella comunicazione umana i gesti, il tono della voce, i lineamenti del volto, le posture del corpo, gli sguardi, comunicano molto di più del contenuto delle parole. Ascoltare è dunque anche osservare, fare attenzione, cogliere i tic e i movimenti del corpo che accompagnano le parole dette, notare i riflessi emotivi che sottolineano certi passaggi del parlare dell’altro. E farne tesoro.
3. Rottura con i pregiudizi. Precomprensioni, etichette e pregiudizi sono un impedimento all’ascolto. Ascoltare significa operare una purificazione delle idee che avevamo sull’altro. L’altro non è una categoria, ma una persona, un volto, una unicità irripetibile. E questo io lo riconosco solo con l’ascolto. Quando ci si dispone all’ascolto occorre essere aperti alla smentita e alla novità. Il rischio è quello di proiettare sull’altro le cose che sappiamo o crediamo di sapere di lui. Senza lasciare che sia lui a svelarsi. Nei confronti dello straniero questo è un rischio che conduce al razzismo e alla xenofobia. Recita un bel testo poetico: “Avvicinati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che tu sei e non per quello che io sono” .
4. Dare tempo all’altro. La fretta è nemica di un buon ascolto. Occorre rimettersi ai tempi dell’altro, non forzargli la mano, ma acconsentire ai suoi tempi per permettergli di arrivare a dire ciò che vuole dire, anche se lo abbiamo già intuito. Ascoltare è, in verità, dare ascolto. L’ascolto è dono, è espressione di donazione di sé all’altro. Dare ascolto è dare tempo, cioè dare vita, è donare il proprio tempo perché l’altro viva. Spesso l’altro fatica a trovare le parole, a esprimere ciò che intende significare, parla in modo non chiaro, non padroneggia le parole: spesso la comunicazione è una sofferenza e l’ascolto una vera ascesi. Ma guai a far sentire all’altro che non si ha tempo, che lo si ascolta guardando l’orologio. L’altro deve sapere che ha tempo e che può dirsi. Soprattutto quando cerca di dire cose pesanti, di cui si vergogna: più che mai allora deve trovare una persona che lo accoglie incondizionatamente. Se l’altro, ascoltandomi mi accoglie in ciò che io sento di irricevibile in me, allora anch’io posso accogliermi. Ascoltare è dire di sì all’altro e apprestargli uno spazio di rinascita. L’ascolto crea fiducia, e la fiducia è la matrice della vita .
5. Ospitare. L’ascolto come fatica tesa alla comprensione dell’altro tende all’accoglienza dentro di sé dell’altro (cum-prehendere): l’ascolto è atto di ospitalità. Occorre pertanto sgombrare il proprio io da pensieri, distrazioni, rumori, immagini che non lasciano spazio all’altro. Se il nostro cuore trabocca di preoccupazioni, sofferenze, pensieri autocentrati, non si rende libero per ascoltare e si chiude all’altro invece di accoglierlo. L’ospitalità dell’ascolto si deve accompagnare al pudore e alla discrezione. L’altro ci fa fiducia consegnandoci timori, paure, parole tremanti, angosce, situazioni inerenti la sfera sessuale o morale: questo esige pudore, non intrusività, non curiosità morbosa, perché allora l’ascolto diventerebbe violenza e abuso, pretesa e prevaricazione. L’ascolto esige discrezione: l’indiscrezione uccide le relazioni e fa perdere credibilità.
6. Fare silenzio. Ascoltare implica non solo il tacere, ma il “fare silenzio”, il fare del silenzio un’azione interiore. Si tratta del silenzio delle conversazioni interiori, dei litigi interiori, delle voci e dei rumori, delle immagini che ci attraversano e ci disturbano. Anche dei ricordi che ci tengono prigionieri del passato. L’ascolto esige ascesi mentale e dominio della facoltà dell’immaginazione. Solo così ciò che l’altro dice e comunica ci può raggiungere in modo limpido.
7. Discernere. L’ascolto opera una cernita, un discernimento tra gli elementi che compongono il messaggio dell’altro. L’ascolto è atto intelligente e selettivo: legge dentro, “fra”, negli interstizi del detto e del non-detto, tra parole e gesti, nota le parole chiave e rivelatrici dell’altro. Tante parole dette non sono essenziali al fine della conoscenza dell’altro, ma spesso per comunicare qualcosa di importante si avvolge il messaggio con parole che costituiscono un cuscinetto protettivo che attutisce il colpo della rivelazione che sta a cuore. Ascoltare implica anche il vedere e nominare le paure che possiamo avere nell’ascoltare. Alcune resistenze all’ascolto? Il fastidio di chi è noioso, di chi è lento, di chi per dire una cosa che già si è capito quale sarà, percorre un giro interminabile, il terrore delle persone confuse e incapaci di esprimersi con chiarezza, la stanchezza nei confronti di persone verbose e prolisse, la ripugnanza verso persone aggressive e rozze … L’ascolto dell’altro diviene così anche svelamento delle proprie fragilità, dei propri punti deboli. È importante, quando si ascolta una persona, ascoltare anche la risonanza in noi di ciò che l’altro comunica. Davvero, l’ascolto dell’altro è anche, inscindibilmente, ascolto di sé. E, tra i frutti che porta, non c’è solo la conoscenza del’altro, ma anche di se stessi.

Premessa cristologica

Gesù, uomo di ascolto e di incontro

Riferimento cristiano fondamentale per l’ascolto è Gesù di Nazaret. Gesù ascolta il Padre, ma sa anche ascoltare gli uomini e le donne del suo tempo. La fatica dell’ascolto è costitutiva della pratica di umanità di Gesù. Per un cristiano, imparare ad ascoltare significa mettersi alla scuola dell’umanità di Gesù, della sua pratica di ascolto, così come attestata nei vangeli.
1. L’ascolto dell’altro, attuato da Gesù è anzitutto accogliente e non di giudizio. Gesù entra nella situazione personale dell’altro senza mai giudicare, accettando l’altro come si presenta, anche quando si tratta di situazioni moralmente più che discutibili. È così con la prostituta in casa di Simone il lebbroso (cf. Lc 7,36-50). Gesù ascolta e accoglie il gesto di gratuità della donna e fa leva su quello per vedere in lei non una prostituta, come fanno gli astanti con pigrizia dello sguardo e malizia del cuore, ma una donna capace di amare. E Gesù accoglie le modalità con cui lei esprime l’amore: non a parole, ma con il corpo. E Gesù vede l’amore là dove gli altri vedono solo il peccato. Difetto, questo, non ignoto ai nostri ambienti ecclesiali.
2. Gesù attua l’ascolto anche come ascolto della sofferenza dell’altro. Di fronte all’indemoniato di Gerasa, un energumeno che gli va incontro gridando contro di lui, uomo violento e squilibrato, Gesù resta saldo e continua a chiedergli il nome, a cercare relazione con la fatica del dare tempo, del dar fondo alle proprie energie psichiche, affettive e intellettuali, con il coraggio di chi crede alla forza della parola e fa fiducia all’altro (Mc 5,1-20). Ascoltare è fare fiducia all’altro. E questa è una delle esperienze più vitali per noi umani: che qualcuno creda in noi. Gesù non fugge davanti a chi lo minaccia perché non si sofferma sulle parole aggressive che quell’uomo pronuncia, ma perché ascolta la sofferenza da cui nasce quell’aggressività. Molte parole e forme di comunicazione aggressiva nascono da traumi e violenze subite e non sanate.
3. L’ascolto dell’altro diviene spesso, per Gesù, compassione. Di fronte alle folle che avevano preceduto lui e i discepoli sull’altra riva del lago di Tiberiade, Gesù sente compassione (Mc 6,34), cioè lascia risuonare in sé la sofferenza, la mancanza, il bisogno di queste persone e accetta di mutare il progetto di riposo che aveva pensato per sé e per i suoi discepoli quando aveva detto loro: “Venite in disparte e riposatevi un po’” (Mc 6,31). Così come prova compassione per l’uomo lebbroso che lo implora (Mc 1,41). La compassione è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro. La sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola. Di fronte al malato per cui non c’è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non con-soffrire restandogli accanto, ascoltandolo ed esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo? Se la compassione si mostra in particolare nei confronti di malati e sofferenti, in verità essa è sentire l’altro nella sua unicità. Certo, colui che soffre è appello, è voce che chiama e chiede ascolto: “Il dolore isola ed è da questo isolamento e senso di solitudine e abbandono che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro … La relazione di compassione inizia nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente e che accetto di ascoltare anche se normalmente le nostre orecchie, le orecchie del cuore si chiudono di fronte alla sofferenza altrui. Questo ascolto della sofferenza altrui è la compassione … La sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la nostra più grande dignità … La compassione, cioè, etimologicamente, soffrire con l’altro, ha un senso etico” .
4. L’ascolto è opera di discernimento in cui è coinvolto anche il corpo. Gesù sente che qualcuno ha toccato il lembo del suo mantello in mezzo alla ressa e intuisce che è stata una donna. Così suggerisce il testo di Mc 5,30-34: “Gesù guardava attorno per vedere colei che aveva fatto questo”: v. 32. Gesù sente, con discernimento del cuore e del corpo, che quel toccare era una richiesta di aiuto. Gesù percepisce l’intenzionalità che muoveva quel toccare e vi discerne una preghiera rivolta a lui.
5. L’ascolto a volte è faticoso anche per Gesù e lui stesso vi oppone resistenze. L’episodio dell’incontro con una straniera, una donna cananea, narrato in Mt 15,21-28, lo mostra bene. Prima Gesù non risponde nulla alla donna che lo implora (15,23), poi risponde seccamente ai discepoli che vogliono levarsi di torno la donna che li infastidisce (15,24), quindi risponde con durezza inusitata alla donna stessa che insiste a chiedergli aiuto (15,26), e infine si lascia vincere e convincere dall’insistenza e dall’intelligenza di fede della donna stessa (15,27-28). L’atteggiamento rigido di Gesù, motivato teologicamente, non è però così dogmatico e impermeabile all’invocazione che nasce da una madre che ha una figlia gravemente sofferente. Gesù resta aperto all’altro e sa modificare posizioni teologiche che così non diventano macigni che impediscono il dialogo.
6. L’ascolto che Gesù attua è differenziato, cioè relativo alla persona che ha davanti. Gesù fa dell’ascolto il luogo per far nascere l’altro, per promuovere la sua soggettività e farlo crescere. Spesso Gesù interroga la domanda che gli viene posta per condurre l’interlocutore ad andare più in profondità e trovare in se stesso le risposte al proprio quesito. All’uomo ricco che gli domanda “Maestro buono, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (Mc 10,17), Gesù risponde interrogando la sua domanda e interpretandola come richiesta con tanto di qualcosa da fare, ma come desiderio di trovare realizzazione uscendo da sé, nella via della relazione (cf. Mc 10,18-19).
(CONTINUA nel prossimo numero)
L’ascolto di Gesù conduce l’altro ad ascoltare se stesso e a fare un percorso interiore.
7. L’ascolto di Gesù è personalizzante: mai Gesù si relaziona con “categorie”. Per lui l’altro è un’unicità irriducibile, un volto e un nome preciso. Una donna samaritana gli dice: tu sei giudeo e io samaritana, dunque perché mi rivolgi la parola, visto che tra di noi non intercorrono relazioni? Gesù le risponde facendole percorrere un itinerario in cui la donna esce dalla inimicizia categoriale e viene restituita a se stessa, alla propria realtà famigliare, alla propria storia personale, alla propria tradizione samaritana, alla propria appartenenza religiosa, e, grazie a questa restituzione a se stessa, può avvenire l’incontro e il dialogo tra i due (cf. Gv 4,1-42).
In sintesi: nei vangeli Gesù è presentato come colui che, mentre narra l’agire di Dio, insegna all’uomo ad ascoltare e ad incontrare gli altri, mostrando la profondità di quella realtà dell’ascolto che non è una passività, ma un’attività impegnativa e feconda: l’ascolto fa nascere alla vita.

Ascolto e vita spirituale

1. Il “privilegio” dell’ascolto

“Noi camminiamo per mezzo della fede, non della visione” (2Cor 5,7). È indubbio il primato dell’ascoltare sul vedere nell’esperienza di fede che sgorga dalla rivelazione biblica. L’originarietà della parola di Dio che si rivolge all’uomo e lo cerca, situa l’esperienza spirituale nel quadro dialettico di “chiamata e risposta”, non in quello della rappresentazione. L’originarietà della parola divina dice che fondamento dell’esperienza spirituale è la volontà di Dio che si manifesta nel suo cercare l’uomo e volgersi a lui. Nell’esperienza biblica della fede l’ascolto gode di una sorta di “privilegio” che consiste nello scoprire e nell’aprirsi a una presenza irriducibile all’ordine della percezione, presenza che eccede l’uomo e che non può essere esaurita da ciò che egli ne può dire o dalle rappresentazioni che ne può fare. Il “privilegio” dell’ascolto risiede nel fatto che esso è per eccellenza il senso della conversione (“Ascoltate, e la vostra vita rinascerà”: Is 55,3) e della relazione con il Signore, dell’alleanza (“Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”: Ger 7,23). Anche lo Spirito può essere ascoltato: “Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2,7). L’ascolto converte il cuore rendendolo capace di accogliere una volontà e una presenza altra. L’ascolto scava in noi uno spazio per ospitare un altro da noi e fare avvenire in noi qualcosa della differenza di cui l’altro è portatore. Per Paolo, la fede fa abitare il Cristo nel credente: “Esaminate voi stessi se siete nella fede: Riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?” (2Cor 13,5).

2. Ascolto e visione, sensi e spirito

Se vi è un “privilegio” dell’ascolto, tuttavia la Scrittura non stabilisce una contrapposizione tra l’ascolto e la vista. Al Sinai “tutto il popolo vide le voci” (Es 20,18 secondo il testo ebraico), e la tradizione ebraica può dire che la parola di Dio diviene visibile nel farsi scrittura, Torah. Vi è sinergia tra vedere e ascoltare: la visibilità del mondo va ascoltata e l’ascolto illumina il visibile, rende visibile il mondo con lo sguardo dell’accoglienza e della gratuità e non del possesso. Nell’economia cristiana la Parola si rende visibile nel suo farsi carne; Dio si è mostrato in Cristo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Certo, Dio resta non visibile, e per i cristiani nella storia anche Cristo resta non visibile, tuttavia la Parola, visibile e udibile nella Scrittura, e lo Spirito, che tale Parola accompagna, guidano a discernere nella carne umana e nella storia la presenza di Dio. L’ascolto tende a inscrivere nel corpo, cioè nell’uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola divina. Questa è la logica dello shemac Iśrā’el (cf. Dt 6,4-9: i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, appesi come pendaglio fra gli occhi, scritti sugli stipiti delle porte, ripetuti ai figli, proclamati in casa e lungo la strada, al momento di coricarsi e al momento di alzarsi …), che si oppone a ogni separazione fra interiorità e sensibilità e che raggiunge l’uomo in quanto tale, nella sua corporeità come in tutti gli ambiti del suo vivere: famigliare, sociale, politico. Rabbi Shneur Zalman di Ladi afferma: “Se la Torah è fissata nei duecentoquarantotto organi del tuo corpo, tu la custodirai; altrimenti la dimenticherai” . Il cristianesimo poi, con l’incarnazione, rivela che il corpo umano è il luogo più degno di dimora di Dio nel mondo e afferma la connivenza profonda tra il sensibile e lo spirituale, tra i sensi e lo spirito, tra il corpo dell’uomo e lo Spirito di Dio: Dio è narrato dall’umanità di Gesù di Nazaret. La rivelazione biblica non oppone visione e ascolto, ma si sforza di pensarli insieme (e nella Bibbia al comando di tendere l’orecchio si accompagna quello di alzare gli occhi), non contrappone i sensi e lo spirito, ma afferma l’essenzialità dei sensi per l’esperienza spirituale. La vita spirituale si è troppo nutrita di polarità divenute antitesi inconciliabili: interiore – esteriore, sensibilità – interiorità, spirito – materia, ascolto – visione, corpo – anima, ecc. Il rischio è di contrapporre e separare ciò che Dio ha unito, di non cogliere la complementarietà e l’intrinsecità di quelle dimensioni e di pervenire a formulare spiritualità infedeli alla rivelazione biblica e anche nevrotizzanti. Perché invece non pensare che fra interiorità e sensibilità non vi è opposizione, ma scambio e interazione in cui “l’una dimensione prega l’altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé” ? È attraverso i sensi che il mondo fa esperienza di noi ed è attraverso i sensi che noi facciamo esperienza del mondo. Vi è un infinito mistero in ogni senso: vista, tatto, olfatto, gusto, udito. Mistero afferente all’alterità che dall’esteriorità e tramite i sensi giunge a noi, ci ferisce, ci inabita. I sensi hanno a che fare con il senso: lì si cela la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo non è estraneo ai sensi attraverso cui il mondo stesso viene da noi esperito: il significato di un fenomeno è inseparabile dall’accesso che vi conduce. Il corpo, che noi siamo ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. Il corpo ci ricorda l’evento e la realtà “spiritualissima” per cui ciò che noi siamo sta nello spazio di una relazione. Noi siamo dialogo, ci dice il nostro corpo. Il corpo è la nostra obbedienza originaria e il nostro compito fondamentale. Il corpo è appello e chiamata, in esso è insita una parola, una vocazione. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo. Certo, i sensi devono essere risvegliati e purificati, perché sono sempre a rischio di idolatria: la vista deve sempre restare aperta all’invisibile, l’ascolto deve sempre stare al cospetto del non detto e dell’ineffabile … Anche l’ascolto, infatti, può divenire idolatrico: quando l’orecchio s’impadronisce della parola divina come di una parola che non chiama, ma conferma, che non interpella, ma garantisce, che non mette in crisi, ma rassicura, che non pone in cammino, ma stabilizza e arresta, allora siamo di fronte a un ascolto idolatrico. Per svolgere la loro funzione spirituale, i sensi devono essere tenuti vivi attraverso l’attenzione e la vigilanza. Allora essi saranno la memoria del carattere spirituale del corpo.

3. Ascolto di sé e di Dio in sé

La rilettura di un passo veterotestamentario mostra come il discernimento della presenza di Dio avviene grazie all’ascolto dello Spirito che abita la persona umana.

3.1 1Re 19,11-13

“Gli disse [Dio a Elia]: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, la voce di un silenzio sottile. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: ‘Che cosa fai qui, Elia?'”.

3.2 Lo schema retorico “tre cose, anzi quattro” applicato a 1Re 19,11-13

Gli studi di Yair Zakovitch hanno collocato la serie di quattro fenomeni del nostro testo all’interno dello schema retorico “tre cose, anzi quattro” frequente nella letteratura profetica e sapienziale . Questo schema presenta tre realtà più una quarta che è la più importante di tutte. Ne troviamo alcuni esempi nei “proverbi numerici” di Pr 30,15ss.:
“Tre cose non si saziano mai,
anzi quattro non dicono mai: ‘Basta!’:
il regno dei morti, il grembo sterile,
la terra mai sazia d’acqua
e il fuoco che mai dice: ‘Basta!'” (Pr 30,15-16).
Si tratta di quattro cose dello stesso ordine e l’ultima non è antitetica, ma decisiva.
Analogamente in Pr 30,18-19:
“Tre cose sono troppo ardue per me,
anzi quattro, che non comprendo affatto:
la via dell’aquila nel cielo,
la via del serpente nella roccia,
la via della nave in alto mare,
la via dell’uomo in una giovane donna”.
Le prime tre cose oltrepassano l’umana capacità di comprensione, ma la quarta, l’unione sessuale tra l’uomo e la donna, le supera tutte, è la più misteriosa e la più ardua da comprendere.
In Amos 1-2 troviamo più volte, come parola pronunciata dal Signore, l’espressione “per tre peccati di …, anzi per quattro non revocherò il mio decreto di condanna” (cf. Am 1,3.6.9.11.13; 2,1.4.6), dove il quarto peccato è la goccia che fa traboccare il vaso, è ciò che porta le cose al di là del limite di sopportazione, ma sempre di peccato si tratta.
Questo schema, da ravvisarsi in forma narrativa dietro al testo di 1Re 19,11-13, implica che alle prime tre cose ne segua una quarta, sempre dello stesso ordine, ma decisiva, più importante delle altre. Ora, poiché la quarta cosa, secondo il testo ebraico, è “la voce di un silenzio sottile” (qôl demāmāh daqqāh) , le prime tre cose (vento, terremoto, fuoco) vanno reinterpretate alla luce dell’ultima, che è un fenomeno interiore, non atmosferico. Si tratta pertanto di cogliere la dimensione simbolica di vento, terremoto, fuoco. Alla luce di questo schema anche l’espressione “il Signore non era nel … “, non significa un’assenza assoluta, ma che non è in quelle cose come è nell’ultima.
Si deve dunque rovesciare la comprensione tradizionale: invece di interpretare l’ultimo elemento alla stregua dei primi tre rendendolo un fenomeno atmosferico, per quanto attenuato, occorre reinterpretare i primi tre alla luce dell’ultimo il cui significato, inequivocabile, ha a che fare con la dimensione dell’interiorità. Elia non sente un fruscio esterno, bensì la voce del silenzio, ascolta la voce interiore di chi ha fatto il silenzio in sé. Del resto, anche nella teofania sul Sinai erano presenti i fenomeni del fuoco e del terremoto (Es 19,16ss.), ma la rilettura deuteronomica dell’evento affermava: “Voi non vedevate nessuna figura: soltanto una voce” (Dt 4,12).

3.3 Interpretazione simbolica di 1Re 19,11-13

Questa interpretazione sottolinea la dimensione interiore e spirituale dell’esperienza di Elia sul monte Horeb . Il testo riunisce ascolto di sé, ascolto dello Spirito e ascolto di Dio. E dice qualcosa non solo sul ruolo dell’ascolto nell’esperienza spirituale, ma sull’esperienza spirituale stessa.
Il vento impetuoso: rûach significa “vento”, “alito”, ma anche “spirito”. Può essere una realtà atmosferica, ma anche antropologica e teologica. Certo, un vento che spacchi le rocce e spezzi le montagne non esiste in natura: l’autore orienta verso un’interpretazione simbolica di rûach. Rûach è forza, potenza, ma una potenza che può schiacciare e travolgere chi la detiene. Maimonide interpreta volentieri rûach come forza di volontà . La forza di volontà appare un elemento della personalità del profeta Elia, una forza che può però rivelarsi eccessiva, troppo impetuosa e aggressiva. Lo Spirito investe anche la dimensione volitiva della persona, ma l’esperienza spirituale non è riducibile alla forza della volontà.
Il terremoto: l’ebraico parla di racash, “tremore”, “tremito”, che può designare il tremare della terra, ma anche un fenomeno psicologico ed emotivo. In Ez 12,18 questo termine significa “trepidazione”, “tremore”, e indica una reazione emotiva dell’uomo. Del resto l’immagine del terremoto è usata spesso nella Bibbia con valenza simbolica, in particolare in riferimento all’intervento di Dio . Se si vuole tradurre con terremoto si tratta di un terremoto interiore, di uno sconvolgimento intimo. Siamo rinviati alla sfera emotiva, che certamente accompagna l’esperienza spirituale, ma non la può esaurire.
Il fuoco: spesso simbolo del farsi presente di Dio (cf. il roveto ardente: Es 3,2-4), il fuoco rinvia anche alla dimensione passionale, affettiva, erotica: l’eros è “fiamma di Yah”, dice il Cantico dei Cantici (8,6). E l’esperienza spirituale traversa l’affettività e la sfera erotica dell’uomo, la concerne, ma l’affettività e l’eros non esauriscono l’esperienza dello Spirito .
La voce del silenzio: questo è il luogo culminante dell’esperienza spirituale, dove si esce dall’ambiguità anche se non si dice che “il Signore era nella voce del silenzio”. Dopo aver detto per tre volte dove era in maniera imperfetta, ora si suggerisce dove può essere, ma non lo si afferma. L’esperienza spirituale diventa apofatica. La voce è silenziosa: non eccesso di zelo, non sussulto emotivo, non passione incontrollata. Tutti e quattro questi simboli hanno una valenza sia antropologica che teologica e trovano il loro punto di sintesi e il loro vertice nel paradosso della voce silenziosa.
Ora, i quattro simboli del vento, del sisma, del fuoco e della voce si ritrovano nel testo degli Atti degli Apostoli sulla Pentecoste a indicare lo Spirito santo. In At 2,2-6 le immagini del rombo (At 2,2), del vento impetuoso (At 2,2), del fuoco (At 2,3) e della voce (At 2,6) concorrono a evocare lo Spirito di Dio e la sua discesa. Uno Spirito che trova il suo inveramento nella parola che annuncia l’evangelo in tutte le lingue del mondo.

4. Vita spirituale come pratica trasformativa

L’ascolto è al cuore della forza trasformativa della vita spirituale. Mi permetto di illustrare questo a partire da due passaggi della Regola monastica di Bose che hanno a che fare con l’ascolto: “Segui, come discepolo, il tuo Maestro, nell’ascolto della sua parola: sia che tu vegli sia che tu dorma, la notte e il giorno, essa germoglia e cresce senza che tu sappia come! (cf. Mc 4,27)” (RBo, Prologo 1). “Prega sempre, in ogni occasione, e non dimenticare che alla preghiera è essenziale il silenzio: questo ti farà ascoltare Dio e non te stesso. Così, senza che tu sappia come, la preghiera trasformerà il tuo essere, la tua vita personale e comunitaria, e la parola di Dio crescerà in te fino a dare frutto” (RBo 37). La vita interiore nutrita dall’ascolto della parola di Dio, dalla preghiera e dal silenzio è ciò grazie a cui ciascuno può mettersi alla scuola del Signore stesso: “Tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me”(Gv 6,45). Ma l’ascolto della parola di Dio si deve accompagnare all’ascolto della vita, degli altri, della storia. Chiediamoci: dove trovare le risorse per crescere spiritualmente e maturare umanamente? Negli strumenti che la vita cristiana stessa fornisce ; anzi, prima di tutto nella vita tout-court, nell’esperienza che la vita stessa consente. Il primo luogo di formazione è la vita con le difficoltà e le resistenze che presenta agli umani.
Il primato dell’ascolto, come ascolto rivolto alla parola di Dio ma anche alla vita, a se stessi e agli altri, si trova alla radice dell’autoformazione e della riflessività. L’autoformazione: il fatto cioè che si è chiamati a divenire formatori di se stessi facendo della pratica di vita che si sta conducendo il luogo della propria crescita umana e spirituale; e si è chiamati a imparare a leggere ciò che si vive per meglio aderirvi e meglio viverlo; e si è chiamati a divenire se stessi all’interno dello stato di vita in cui ci si trova, accordando il primato all’unicità personale rispetto a modelli preconfezionati. La riflessività: ovvero, che si è chiamati ad ascoltare e a pensare ciò che si vive mentre lo si vive, a valutare criticamente ciò che si fa sapendovi leggere se stessi, quasi sviluppando un terzo occhio con cui guardarsi dall’esterno e così conoscersi, correggersi, migliorarsi.
Possiamo ricorrere all’immagine dello specchio, molto usata dai Padri per indicare gli strumenti della vita spirituale, e anzitutto e sopra a tutto, la Bibbia: “La Sacra Scrittura si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto, possiamo verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla meta” . Nel gioco di riflesso che lo specchio attua, l’uomo si vede così come è e nell’immagine che gli viene rimandata si innesta non solo la possibilità della riflessione su di sé, ma anche l’illuminazione dello Spirito santo che orienta l’immagine che si vuole far emergere, immagine somigliante a Cristo. La lectio divina, come ascolto della parola di Dio attraverso la lettura delle pagine bibliche, mette in atto questa potenzialità della Scrittura e occupa un posto privilegiato nell’ambito della vita spirituale . L’espressione migliore di questo gioco in cui umano e spirituale convergono nell’indicare una via di conversione, è il passo di Paolo in Rm 8,16: “Lo Spirito stesso testimonia insieme (symmartyreî) al nostro spirito che siamo figli di Dio”. Vi è specularità tra Spirito (maiuscolo, in senso teologico) e spirito (minuscolo, in senso antropologico). Ascolto dello Spirito e ascolto dello spirito costituiscono un unico cammino per chi vuole inoltrarsi nella vita spirituale cristiana. Cammino il cui fine è la capacità di amare, la carità: su questo si misura la verità della vita spirituale e della preghiera. Questo è ciò a cui porta l’ascolto, la dilatazione del cuore operata dall’ascolto.

Luciano Manicardi, priore di Bose

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