Al capezzale del padre

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Ti affacci per l’ultima volta alla casa d’infanzia e ti accorgi che c’è un segmento (una linea retta?…) che congiunge questo punto indistinto della vita con il suo esito. Un’ipotenusa la cui altezza sono le vette raggiunte faticosamente, e la base la proiezione ortogonale di questo esistere. La natura arcana mostra il suo volto ora arcigno ora benevolo,  un tiepido sole si riaffaccia dopo tanta latitanza. Ti fermi. I pensieri corrono lontano, ricomincia il mulinare delle ore, dei giorni: il quotidiano, il perdersi in una corsa sfrenata che non ha senso; il riposo il dubbio le certezze, raccolte lungo il cammino frastagliato. Le domande, le risposte che contengono le domande; l’incompiutezza,  la fatica  del durare. Ti ritrovi poi proiettato in una stanza d’ospedale, davanti a una parvenza d’uomo che fu il tramite che ti generò alla vita. Ti sogguarda, la mascherina a consentire un respiro meno affannoso, ti riconosce subito, la mente lucida e pronta, contento di vederti. Sa troppe cose della tua e della vita altrui, ma pro bono pacis – come è solito dire – tace. Ma dal silenzio affiorano le brucianti verità, gli splendori passati, l’oro e il catrame della vita. Io, al capezzale, ti tengo la mano, ti faccio domande discrete, cerco di non affaticarti. Mi domando di che cosa potresti aver bisogno, parlo con il personale, sono lì: un punto sperso nell’universo, un attimo nell’infinita estensione del tempo. Al tempo senza fine dell’addio si contrappone una sosta che finisce prima ancora di incominciare, con dentro significati che ritornano all’origine: lo sguardo di un padre al figlio può trafiggere le galassie. Di padre in figlio •

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