Nel calderone della scuola

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Ancora alla ricerca della quadratura del cerchio, settembre vede la riapertura delle scuole.
È una quadratura che tiene campo tutti gli anni per un po’, con i dibattiti sul senso della scuola odierna, sulle sue prospettive e sulla sua missione.
Tuttavia dopo qualche settimana non se ne sente più parlare se non per motivi accidentali o sindacali. Si tratta di un movimento massivo che entra nella routine quotidiana di tante famiglie, quasi un evento ineluttabile, da accettare senza farsi tante domande o coltivare illusioni.
Perché oggi c’è tanto disincanto per la vicenda scolastica?
I ragazzi e le ragazze non sembrano molto appassionati (se mai lo fossero stati nel passato!) a questa esperienza che ritengono spesso lesiva della crescita della propria personalità e che intendono vivere a modo loro, senza ritenere la proposta scolastica troppo degna di attenzione.
Le famiglie si ritrovano spesso catapultate in questa dimensione in cui si chiede loro partecipazione e corresponsabilità ma in cui, ben presto, si accorgono della difficoltà a sentirsene parte.
Gli insegnanti si assumono quella parte da “cavalieri solitari” alla disperata ricerca di un ruolo significativo (o per lo meno dignitoso) nei confronti delle loro classi di studenti, sentendosi costretti in una struttura normativa, spesso instabile e contraddittoria, che fatica a riconoscerne un ruolo generativo di cultura e civiltà.
Che non sia per tutti nociva quella definizione particolare di “scuola dell’obbligo”?
Nel 1962 il Ministro per l’istruzione Gui, nello spiegare la riforma della scuola media unica (fino ad allora divisa in Scuola Media e Avviamento) spiegò che sarebbe stata utile al futuro del paese una scuola che desse a tutti giovani una base comune, una esperienza da condividere insieme che dotasse ciascuno della possibilità e della capacità di poter scegliere con libertà e responsabilità quale potesse essere la propria strada futura dopo i 14 anni.
Forse pochi ricordano che la scuola italiana fu la prima in Europa ad adottare questo principio che poneva fine ad una scuola selettiva tipica della tradizione aristocratica europea in cui vigeva il principio che “pochi molto intelligenti” avrebbero dovuto dirigere i “molti meno intelligenti”. Vale la pena sottolineare che in alcuni paesi europei, ritenuti oggi all’avanguardia, vige ancora oggi questa indicazione dal punto di vista pragmatico, se non più da quello giuridico-formale.
A quel tempo, già da anni, negli USA e nell’URSS (pur con sviluppi e obiettivi diversi) era stata impostata una scuola di base che accomunasse tutti i giovani per farli sentire parte di un unico popolo e nazione, e che da lì partisse per dare spazio alle attitudini e alle scelte personali.
Quell’obbligo, in quel tempo, era inteso come obbligo che ci si assumeva per dare una possibilità alle nuove generazioni di diventare protagoniste del futuro dell’umanità.
Oggi, al contrario, sembra che prevalga l’obbligo alla prestazione, al raggiungimento degli obiettivi (quali?), alla gestione istituzionale di “eccellenza”.
L’istituto più accattivante ha meno possibilità di soffrire la concorrenza delle iscrizioni; si preferisce gestire la difficoltà dell’overbooking che la mancanza di numeri, causa di chiusura delle classi. Argomenti di realpolitik e seduzione sembrano dominare la scena in quell’ambito scolastico dove abbiamo assistito per tanti anni e con tanta fatica alla mutazione che dall’indottrinamento aveva portato all’istruzione per poi passare all’educazione.
È evidente da più segnali come l’educazione sia in crisi, forse perché è in crisi la modalità delle relazioni intergenerazionali che, poi, nasconde quella crisi più profonda delle autentiche relazioni tra persone autentiche.
Ma “crisi”, non lo dimentichiamo, è “stare sul crinale”. Ci chiama a discernere, giudicare, valutare e scegliere.
Scegliere tra il farci abbindolare da seducenti sirene di conduzioni manageriali che vanno di moda nelle stanze di tante istituzioni (sia pubbliche che private) oppure scegliere di seguire la strada, forse più impopolare e discreta, che passa attraverso il rispetto della dignità della persona umana da considerare al di sopra di ogni valore.
Per dare spazio a relazioni autenticamente umane occorre innanzitutto tempo; tempo per far maturare il frutto della conoscenza reciproca, tempo per far accrescere la stima vicendevole, tempo per consentire l’affidamento della fiducia.
Eh già! … la fiducia non puoi misurarla nella profondità della vita di una persona. La fiducia puoi darla e basta (non come fanno le banche che definiscono fiducia un indice numerico di affidabilità che misura la solvibilità economico-finanziaria dell’individuo). La fiducia non puoi ritirarla una volta data perché non ti torna indietro nulla se non la delusione che castra ogni possibilità futura di ridare fiducia e acciglia lo sguardo su tanti esponendo al rischio delle minoranze elette.
La fiducia mai ritratta è la cifra del rispetto della dignità della persona umana; la fiducia non si ferma alla delusione scaturita dalle vicende ma dribbla le illusioni preconcette sull’altro per puntare al cuore e alla mente sapendo che un talento prezioso si nasconde nella profondità di ogni essere umano.
Tale rispetto richiede riconoscimento e riconoscenza nei confronti di un’unica umanità che cresce e si fortifica solo quando facciamo esperienza di accompagnamento, quando qualcuno ci si pone a fianco e condivide con noi la strada e il pane.
Buona scuola a tutti noi: studenti, insegnanti, educatori, genitori e dirigenti. •

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