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Il trenino e Fermo

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Un viaggio alla scoperta della storia del trenino verde sulla tratta Porto S. Giorgio-Fermo-Amandola.

Il 25 agosto 1956, viene emanata ai comuni del Tenna la circolare che sancisce la fine del servizio ferroviario della linea Porto S. Giorgio-Fermo-Amandola due giorni dopo.
Questa linea ferroviaria non era come le altre:
Primo, fu la prima ferrovia in italia completamente sovvenzionata e costruita dall’industria privata, infatti era gestita dalla Società per le Ferrovie Adriatico Appennino (F.A.A.).
Il secondo motivo riguarda la distanza fra le rotaie che era minore di quella di una normale ferrovia, solo di 95 cm in confronto a quelle normali a 143,5 cm.
Infine, ultima cosa che rende unica questa ferrovia, è il fatto di essere stata una ferrovia moderna fin dall’inizio.
Ernesto Besenzanica, progettista e costruttore dai primi anni dell’esercizio a vapore, ha voluto sperimentare nuove tecnologie, con l’utilizzo di locomotive del tipo Mallet e di automotrici a Vapore.
Quella di Fermo fu tra le prime ferrovie ad adottare nel 1928 il sistema a corrente continua, che oggi caratterizza le ferrovie dello stato, passando dal treno a vapore a quello elettrico in meno di poco più di un anno.
Per l’alimentazione dell’elettricità per la prima volta venne usata in Italia una sottostazione elettrica automatica collocata di fianco alla stazione di Servigliano, tecnologia che verrà in seguito adottata su larga scala dalle F.S.
Ma tutto ciò non la salvò dall’onda di chiusure ferroviarie che caratterizzò gli anni ’50, soprattutto dovute ai danni bellici che queste avevano subito nel corso del secondo conflitto mondiale.
In realtà la Ferrovia Fermana fu tra le prime ferrovie concesse a ritornare sui binari, con il primo servizio limitato a Porto S. Giorgio e Fermo restabilito un mese dopo la liberazione della città (20 luglio 1944), e con un ritorno del treno elettrico ad Amandola nell’aprile 1945.
Stessa ripresa non ebbero le altre ferrovie che facevano capo alla F.A.A., la situazione più grave di tutte si presentò sulla linea Sangritana, che attraversando la Val di Sangro per 120 km, coincideva con la linea difensiva tedesca Gustav, motivo dell’ingente distruzione su tutta l’area.
Con i costi della ricostruzione di questa linea la società dovette ridurre gradualmente gli investimenti sulle altre ferrovie in servizio, sottraendo i fondi necessari alla manutenzione della linea e del materiale rotabile della ferrovia Fermana e istituendo dal 1952 un più economico servizio stradale parallelo alla ferrovia.
Nonostante ciò l’afflusso dei passeggeri sulla linea continuò ad essere costante ma il materiale, privo di una manutenzione ordinaria, cominciò a mostrare i suoi anni.
Cosicchè nell’autunno 1955 una frana interruppe la linea tra Servigliano e Santa Vittoria in Matenano, momentaneamente il servizio da Servigliano ad Amandola venne sostituito da corse di autobus.
Nonostante dopo poco tempo venisse ripristinato il servizio, dal momento della frana, la società aveva già cominciato a organizzare lo smantellamento della linea stessa, come mostrano dei documenti del maggio 1956. Purtroppo dopo alcuni mesi di ”agonia” il treno farà la sua ultima corsa il 27 agosto 1956. Il servizio Porto S. Giorgio-Fermo fu rimpiazzato nel 1958 da una filovia, mentre la tratta Fermo-Amandola percorsa da corriere.
Durante tutto questo lungo declino la posizione della popolazione del Tenna era sempre rimasta unanime: la ferrovia doveva rimanere. Il 26 ottobre ci fu la più grande manifestazione contro lo smantellamento della linea in piazza del popolo a Fermo. Ma le numerose proteste e scioperi non portarono a nulla di fronte a quella che era una tendenza dell’epoca della riduzione del servizio ferroviario sulla penisola italiana, tagliandone i ‘rami secchi’. •

Luca Vesprini

Credi che potremmo dimenticarci di te vecchio nostro trenino di latta?

Chissà cosa direbbe il morto trenino, se potesse parlare! Quanti angosciosi singhiozzi; quanti gonfi lacrimoni dai tre occhi spalancati uscirebbero!
Povero trenino, che un tempo, impettito ed aitante, percorrevi la nostra florida valle dall’Appennino al mare, gloria e vento dei nostri padri, della generazione passata cui oggi si rimprovera d’aver pianto sulle pagine del De Amicis, ma alla quale va il merito del Grappa e del Piave!
La tua triste storia mi fa ricordare quel racconto che leggevo con cuore commosso quand’ero bambino, di quel cane vecchio che tanti servigi aveva reso al suo padrone il quale, alla fine, con umana riconoscenza pagò la sua fedeltà con un macigno al collo.
Decenni fa eri orgoglioso degli sguardi ammirati dei tuoi padroni ai quali, primo fra tutti, gonfiavi le casseforti.
Tutto davi e nulla chiedevi per te. La tua suprema generosità non ti faceva pensare al futuro, quando, a forza di limitare i tuoi bisogni indispensabili che occorrono ad ogni essere della terra per mantenersi, tu saresti divenuto un inutile rottame.
Non ti curavi di ciò, sempre impettito, correvi sui binari anche traballanti trainandoti, dietro quei vagoni rumorosi e sfiniti che desideravano solo la quiete del cimitero.
Ed ora, divenuto quel trenino di latta verde caro alla fantasia dei poeti, i tuoi padroni, riconoscenti, hanno voluto donarti il sollievo del macigno al collo.
Hai voglia di fare prodezze, sfidando neve e gelo (tu solo mantenesti le comunicazioni la scorsa invernata), superando ponti di fortuna, cercando di correre per adeguarti ai tempi, così come i vecchietti che vogliono mostrarsi ancora arzilli!
Nulla di tutto ciò è servito ai tuoi padroni: li hai arricchiti ed ora nulla più che il tuo sacrificio supremo ha potuto far traboccare i loro forzieri.
Povero trenino anche tu hai provato quanto sia grande la riconoscenza umana!
Ma credi proprio che potremmo dimenticarci di te, ora che sei andato nel mondo dei più?
Questi sentimenti mi dettano il cuore viaggiando sul trenino durante il tempo che esso impiegava per percorrere il suo tragitto limitato a Servigliano; tempo che esigeva da parte dei viaggiatori una mussulmana pazienza.
Mi lasciavo cullare dai pensieri leggeri che esso suggerisce ai viaggiatori che non abbiano crucci o gravi afflizioni al cuore.
Lento, come i nostri caratteri, in confronto a quelli nordici, il paesaggio passava sotto i miei occhi, paesaggio lattiginoso dalla nebbia gracile e e instabile così da sfuggire al suggello dello sguardo che cerca approdi in una campagna zuppa e contrita.
Questo anno l’inverno è stato tremendo, un inverno così pedantescamente piagnucoloso, da ricordare clima dell’Ulster, dove piove per otto mesi di seguito o quello del Belgio il cui cielo simboleggiato dalla statuetta dell’enfant brussellese che zampilla dal sesso, davanti ai divertiti turisti. I vagoni vecchi e stanchi dondolavano e forse mi avrebbero cullato il sonno se l’aria mattutina che filtrava dagli sportelli rotti non mi avesse soffiato in faccia: se il fracasso indemoniato delle tavole sconquassate non mi avesse tenuto desto, se il brivido ad ogni passaggio dei ponti acrobatici ed ad ogni scossone un pò più sfacciato dei normali.
I miei compagni di viaggio in quella vettura costituivano una compagnia discreta, perchè i viaggiatori, qui da noi hanno la virtù di lasciarvi nei nostri pensieri.
Veniva, però, un gran baccano dalla vettura di coda, che come sempre, ospitava gli studenti abbonati, tutti bravi ragazzi, ai quali, per rimaner fedeli alle tradizioni, non sembrava essere bravi studenti abbonati senza far chiasso; come ai medici non sembra essere, bravi professionisti, senza la tradizionale indecifrabile scrittura. Di tanto in tanto, in ogni stazioncina, il treno si fermava.
Allora uscivano le ”capesse”, belle ragazze dal viso serio e impettite, che non avevano nulla da invidiare ai colleghi delle più grandi metropoli che il berretto rosso e il fischietto.
Chissà perchè la direzione non aveva provveduto a questo.
Erano loro le regine di quelle stazioncine fiorite di ortaggi, che stampano nei viaggiatori una carezza, un bacio di rose rampicanti di camomilla che tinge di giallo le scarpate della ferrovia.
E i controllori?
Con uno o più filetti nel berretto, essi, salendo sul convoglio in corsa, gridavano ai capostazione i numeri del lotto per annunciare i minuti di ritardo portati dal treno.
Porgo ad uno di loro il biglietto che per completare la cornice ottocentesca, portava ancora scritto il prezzo di Lire 4,75.
Me lo ritirano.
Peccato, avrei potuto riportare a casa un raro pezzo di museo.
Intanto il treno proseguiva il suo viaggio lento verso i passaggi a livello incustoditi ad eccezione di quei pochi costuditi da donne che reggevano insonnolite la banderuola un giorno rossa con l’aria di chi avesse in mano un cero. Passava superbo col ricordo, forse, di un passato glorioso; e quando arrivo ansimante al capolinea sembrava soddisfatto.
Soddisfatto di essere sempre pronto a rendere ancora servigi, ma con la celata mestizia di chi sa di lasciare le strade terrene per andare incontro alla morte. •
Luigi Bertoni
Da ”La voce delle marche”, 16 settembre 1956

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