Il primo è la visione sacramentale e non “militante” della Chiesa, ossia il suo essere primariamente strumento di salvezza. Il secondo è il ripensamento del ruolo della gerarchia, in particolare dell’episcopato, con la questione della collegialità. I vescovi formano un collegio e il papa è chiamato a stringere con loro un rapporto di comunione profonda come successori degli Apostoli. Il terzo è il capitolo sul laicato. I laici devono uscire dalla marginalizzazione in cui sono collocati ed essere testimoni attivi, nella Chiesa e nel mondo, del Signore risorto. Anche se il tema del laicato viene ripreso e sviluppato in altri documenti come Apostolicam actuositatem e Gaudium et spes, è in Lumen gentium che esso trova il suo fondamento teologico. Il filo rosso che lega la riflessione su questi ambiti è l’idea di una Chiesa meno piramidale e più circolare, meno monarchica e più partecipativa, in cui abbiano meno valore i compiti specifici di ciascuno e di più il sacerdozio comune conferito nel battesimo. Se volessimo individuare una cornice di fondo, che precede e include gli argomenti cui abbiamo accennato, dovremmo riconoscere che il tentativo dei Padri conciliari è stato innanzitutto ripensare una comunità cristiana attiva, in cui il compito di testimoniare Cristo fosse accolto con gioia e responsabilità da tutti. Insomma, non una Chiesa di “tecnici”, di addetti ai lavori, di specializzati, ma un organo vitale in cui ogni cristiano è chiamato a dare il proprio contributo. Escluso è solo chi non vuole. I Padri dei primi secoli chiamano questo stile con una parola tecnica: sinodalità. Giovanni Crisostomo addirittura usa i termini “sinodo” e “Chiesa” come sinonimi: «La Chiesa ha nome sinodo». Soltanto successivamente il “sinodo” è divenuto il luogo di incontro dei vescovi. Originariamente esso esprimeva la necessaria corresponsabilità riproposta come priorità dal Vaticano II. Credo che su questo tema molto sia stato fatto e molto sia ancora da compiere. Indubbiamente, il modello ecclesiologico delle nostre parrocchie e diocesi non è più quello di cinquant’anni fa. La stessa consapevolezza che il laicato ha di sé è una grazia irreversibile. La dimensione partecipativa delle singole comunità, la formazione personale dei credenti, un nuovo senso comunitario della trasmissione della fede, l’effervescenza delle associazioni e dei movimenti religiosi sono fenomeni evidenti di cui rendere lode a Dio. D’altra parte, gli organi di partecipazione ecclesiale, il cui funzionamento dopo cinquant’anni sarebbe dovuto diventare una prassi ordinaria, sono ancora in una fase embrionale. In alcuni casi, svolgono una funzione di ratifica di decisioni già prese. In altri, si limitano all’ordinaria amministrazione e non hanno quella forza propulsiva di “pensare” una Chiesa adatta al nostro tempo. Questo porta con sé, tre le altre, due conseguenze principali. La prima è che una considerazione solo formale di questi strumenti produce sfiducia e disinteresse in chi ne fa parte. La seconda è che la stessa concezione di Chiesa è ancora clericocentrica, in un momento storico in cui il Vaticano II avrebbe auspicato qualcosa di profondamente diverso. Guadagnare una nuova visione di Chiesa è un dovere di fedeltà alla comunità voluta da Cristo. Se il ripensamento viene subìto come la conseguenza di una brutta influenza di cui si aspetta la fine per ricominciare tutto daccapo, l’esito è già segnato e sarà fallimentare. Se invece si abbandona un’ottica puramente funzionale, allora la Chiesa tornerà ad essere la comunità che annuncia e testimonia con la vita la presenza del Signore (anche) in questo tempo.
Enrico Brancozzi