Poi inventarono il radar che serve a rilevare e determinare la posizione di oggetti fissi o mobili. Il radar va alla ricerca del suo target e implica una apertura indiscriminata anche al più blando segnale. Non indica una direzione precisa. È un simbolo per indicare l’uomo che ha cominciato ad andare alla ricerca di un senso per la vita e anche di un Dio capace di qualche segno di riconoscimento, capace di far sentire la sua voce. L’espressione di questa logica è la domanda: «Dio, dove sei?». Ma anche il radar oggi è obsoleto.
L’uomo e la donna, ma soprattutto i ragazzi si sentono smarriti se il cellulare non ha campo o se il proprio device tecnologico (computer, tablet o smartphone) non può accedere a qualche forma di connessione di rete wireless. Se una volta il radar era alla ricerca di un segnale, oggi invece è la persona, sono i ragazzi a cercare un canale di accesso attraverso il quale i dati possano passare.
Oggi quindi più che cercare segnali, i giovani, i ragazzi, i bambini sono abituati a cercare di essere sempre nella possibilità di riceverli senza però necessariamente cercarli. L’estrema conseguenza è la logica introdotta dal sistema push: quando un dato è disponibile (una mail, ad esempio) io lo ricevo in maniera automatica perché tengo aperto un canale di ricezione. L’uomo da bussola prima e radar poi si sta trasformando, dunque, in un decoder, cioè un sistema di accesso e di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono senza che lui si preoccupi di andarle a cercare. Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload. Il problema oggi non è reperire il messaggio di senso ma decodificarlo, riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo.
Prima vengono le risposte ed è da queste che l’uomo è chiamato a riconoscere le sue domande più radicali e autentiche. Allora è importante oggi non tanto dare risposte. Tutti danno risposte! Oggi è vitale riconoscere le domande importanti, quelle fondamentali. In un ambiente di “nativi digitali” è necessario continuare ad essere educatori di Dio. Il nord esiste, il segnale c’è, il kerigma è lo stesso di sempre. Ma non ci si può ostinare a ripresentare “quello che una volta funzionava”.
È indispensabile allora, prima di tutto, affermare che non si dà educazione diretta e immediata della fede (non si è più bussola). La fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Chi ha fatto catechismo ad Abramo? Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio. La risposta dell’uomo consiste nell’obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall’udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione. L’educazione alla fede è solo indiretta. È saper discernere (decodificare) tra i vari messaggi quello per la vita, la vita piena, la vita eterna, la felicità. L’appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d’uomo, per risuonare come parola comprensibile dall’uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana.
Le due modalità (quella misteriosa e indicibile in cui si esprime l’appello di Dio alla libertà dell’uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano né possono essere considerate “alla pari”. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’intervento divino anche nell’ambito educativo, più direttamente manipolabile dall’uomo e dalla sua cultura.
La fede dunque riconosce la grandezza dell’educazione: il fatto cioè che liberando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio. Ma la fede riconosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazione dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni. Fare catechesi, in un mondo ormai diventato cyberspazio vuol dire mettere in essere non solo messaggi digitali, ma vivere atteggiamenti prossemici significativi.
È quello che ha fatto e che sta facendo Papa Francesco, il catecheta per eccellenza. Il suo fare catechismo non è bussola, non è radar, non è decoder, ma è presenza significativa. Ed è per questo che invita ad uscire dalle sagrestie per entrare nella vita vera di ogni realtà. Fare catechismo, allora non è solo trasmettere nozioni, ma testimoniare la presenza di un Dio misericordioso, benedicente, paziente, instancabile. Ecco dunque la novità di un gesto antico fatto in un mattino di Pasqua: la gioiosa prossimità. •
Nicola Del Gobbo