The digital death

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“Siamo condannati a essere solo vitali”, leggiamo nella raccolta di brevi testi intitolata “Sulla medicina”del filosofo Georges Canguilhem.

È sotto gli occhi di tutti il dato di come la cultura digitale stia trasformando il concetto sociale, culturale e giuridico di id-entità psicofisica. Da una parte, vengono descritte le conseguenze della morte degli utenti di Facebook (Digital Death), oggi il più grande cimitero (virtuale) che vi sia al mondo. Facebook e i social network in generale fanno sopravvivere involontariamente la “condivisione” alle persone in carne e ossa. Tuttavia, paiono in grado di difendere maggiormente il limite, cioè il confine tra la vita e la morte, in virtù della loro particolare natura interattiva e intersoggettiva – appunto, sociale. Da un’altra parte, vengono descritti alcuni software che, invece, mirano a negare la morte e a cercare di farci sopravvivere sotto forma di “id” (digitale). Tutti questi esempi rientrano all’interno di un territorio che, dissociando la nostra vita biologica dalla nostra presenza virtuale, mettono in discussione il rapporto tra identità e mortalità. È l’amara riflessione di Sisto Davide, tanatologo e ricercatore post-doc in Filosofia Teoretica all’Università di Torino.
Dal canto suo, Eran Alfonta, per giustificare la sua creazione “If I Die” (http://ifidie.net/) – una applicazione che ci dà la possibilità di preparare videomessaggi di commiato, i quali verranno condivisi sulle nostre bacheche di Facebook una volta passati a miglior vita – sostiene che oggi siamo all’interno dei social network prima (ancora) di nascere (nelle immagini delle ecografie prenatali) e durante tutte le fasi di passaggio e di crescita. Non è, pertanto, insolito morire anche all’interno del web e, di conseguenza, ripensare in modo radicale le regole sociali, culturali e giuridiche del nostro legame con la morte, il lutto e l’oblio in relazione alla cultura digitale. Alfonta, in effetti, non fa che evidenziare una peculiare caratteristica della società odierna: con la diffusione popolare del web e, successivamente, dei social network è incominciata una colonizzazione umana graduale di un nuovo territorio virtuale che, integrandosi con quello tradizionale in cui da sempre viviamo in corpore et anima, apre scenari inquietanti in materia di fine vita. Ciò si collega perfettamente a quanto sostengono studiosi del fenomeno nel Regno Unito: nel nuovo Millennio abbiamo superato sia la morte tradizionale, che riguardava l’intera comunità e produceva un lutto collettivo, sia la morte moderna, isolata negli ospedali e generatrice di un lutto quasi esclusivamente individuale, asettico, per introdurci nell’insolita realtà della morte postmoderna, una morte in cui – proprio in virtù della cultura digitale – si combinano insieme il pubblico e il privato, il collettivo e l’individuale, in modo da rendere quasi impossibile la loro distinzione, al punto da “programmarsi” for a post-war dream: se muoio, con un clic risorgo.
Ora, la cultura digitale, generando una radicale dissociazione tra l’esistenza biologica, unica e irripetibile, e l’identità elettronica, diluita in mille formati e di per sé perdurante, pare voler mettere in discussione l’assunto di Canguilhem riportato in esergo. Oggi, se non sei sui social non “sei”: la estromissione da uno di questi canali telematici determina l’annientamento ontologico o meglio onto-cibernetico del soggetto, quindi sempre più labile si fa il confine tra vita e morte – vita reale e morte virtuale / vita virtuale e morte reale; il cogito ergo sum diventa sum telematicus ergo sum, al punto che un I-Phone che va in tilt, un difetto di linea o un default qualsiasi precipita nel baratro gli adepti di un credo aberrante. Bisognerà dunque riscrivere anche lo statuto della morte, perché questi avatar, senza i loro apparecchi diabolici, non esistono, e suscitano interrogativi angosciosi: e adesso che faccio che non mi funziona il cellulare?… come vivo?… come comunico?… ma nell’epoca della comunicazione in realtà non si co-munica, non ci si confronta più in un tête-à- tête schietto e “incondizionato”: l’importante è essere in modalità di interazione che rovesciano l’usuale punto di vista, la massa di “bites” sagittalmente fugge come scheggia impazzita dal proprio baricentro per costruirne uno nessuno e centomila: ché le maschere dei social sono schizofreniche e plurime, non c’è più un “uno” (una identità) ma mille id-entità frantumate. Riuscirà l’io a ritrovare se stesso nella sua uni(ci)tà ontologica?… o vivremo, in un autismo di ritorno, la bulimia del “cercarsi” negli altri id spezzettati e sparpagliati qua e là?…
È vero che la nostra morte fisica non smette di aver luogo in un istante eccezionale, che costituisce – letteralmente – un’eccezione rispetto agli istanti precedenti e successivi e che determina la fine della nostra identità individuale; tuttavia, continuiamo a vivere nella realtà digitale, forse addirittura per sempre e senza possibilità di oblio, in quanto l’oblio – come scrive Giovanni Ziccardi – sembra incompatibile con la stessa struttura di questa realtà “alternativa”. Il web, oramai divenuto parte integrante della quotidianità di quasi ogni individuo, ci fa sopravvivere alla nostra morte corporea, diffondendo e disperdendo le nostre rappresentazioni, le nostre multiple maschere e le nostre immagini in una molteplicità di banche dati o in più luoghi virtuali. E questo fenomeno tenderà a incrementarsi, anche se nessuno sa in che forma. Il che ci pone dinnanzi a un paio di quesiti ineludibili, tanto da un punto di vista filosofico quanto da uno giuridico, che catalizzeranno sicuramente su di sé l’attenzione degli studiosi nel futuro prossimo: si può pensare un’identità senza mortalità, quindi senza l’unicità che deriva dalla “condanna” a essere (solo) apti ad vitam? E, parallelamente, può un’identità sopravvivere alla morte della singola persona che la “incarna”, al modo della “resurrezione” che la Storia ha narrato come “esclusiva” dell’Unigenito?

Ps. Essere vivi o essere morti conterà – in definitiva – sempre meno: ci sarà, comunque, un sistema informatico che continuerà a scrivere e a comunicare senza il bisogno della presenza fisica di una persona, della sua esistenza in atto. Ciò che conta è lo status scritto all’interno del social network, ciò che importa sono i pensieri espressi, pronti a essere eternalizzati e a prescindere dalla presenza effettiva di chi li pensa. La vita futura sarà un insieme di parole che si autodisciplinano in autonomia su uno schermo digitale, indipendentemente dalla relazione tra coloro che le esprimono (D. SISTO, Digital Death. Come si narra la morte con l’avvento del web). Soggiungo: agghiacciante. •

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