La casa di mio nonno
Il terreno, inizialmente, era di circa venti ettari. Si estendeva dalla proprietà dei Tartuferi fino al fiume Chienti. Il seguito, gli amministratori del fondo di proprietà della marchesa Ciccolini, lo divisero tra la famiglia di nonno Pacifico al quale toccarono dodici ettari. Il terreno restante, sul quale fu costruita una nuova casa nella parte pianeggiate, a valle della collina, vicino al fiume, dopo la “Carrareccia”, andò al fratello Albino. Questi morì improvvisamente molto giovane. La moglie e le due figlie, già sposate, lasciarono la casa e al loro posto subentrò un’altra famiglia.
I dodici ettari di terra, coltivato da nonno Pacifico, si distribuivano dietro e davanti alla casa colonica posta sulla collina. Sul retro dell’abitazione, ogni anno si alternavano colture diverse seguendo il principio della rotazione agricola: grano, granoturco, erba medica. Filari di viti, allineati verticalmente alla casa, si maritavano a grandi alberi da frutta. C’era di tutto: ciliegie, albicocche, pesche, noci, fichi, prugne, mele, pere. Davanti alla casa, sulla sinistra, si sviluppava per circa due ettari di terreno una grande vigna esposta a Sud Est. La posizione era incantevole, la produzione dell’uva abbondante ogni anno, salvo quando capitava qualche grandinata. Sul terreno restante, che digradava verso il fondovalle, si coltivavano altre culture secondo gli anni. Di là dalla carrareccia, quasi vicino al fiume Chienti, la famiglia lavorava circa un altro ettaro di terra. Il terreno era irriguo. C’erano ortaggi e frutta di ogni genere e in tutte le stagioni; d’inverno, cavolfiori, rape, finocchi; d’estate, insalata, pomodori, zucchine, fagiolini, piselli, e frutta che andava dai cocomeri, ai meloni, pesche, ciliegie, albicocche. Nonno Pacifico tutti i mercoledì della settimana si recava al mercato a Macerata a vendere i prodotti alle “vennericole”. Attaccava “Stella”, una magnifica cavalla grigia pezzata, al biroccino e guadagnava la strada per Corneto, da qui nel capoluogo. Affabile, arguto, abituato a parlare e a contrattare il prezzo con i clienti del mercato, aveva sviluppato la battuta pronta, scaltrezza, senso degli affari, doti unite a onestà e bontà impareggiabili.
A piano terra della casa, sul lato destro, c’era la stalla, dove erano ricoverate le vacche da lavoro e da latte dette, “mungane”, unitamente ai tori e ai vitelli. Al centro, nel sottoscala, si apriva il pollaio, subito dopo una grande porta conduceva nei locali usati come cantina. Questi ultimi, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, erano utilizzati come falegnameria da due fratelli, birocciai parenti di nonno Pacifico. Sul retro dello stesso piano vi era un grande locale per il ricovero degli attrezzi e macchinari agricoli: aratri in ferro e in legno, seminatrice, falciatrice per il fieno e il grano, erpice, rullo, birocci, calesse, carriole.
Sul lato Ovest erano le stalle dei maiali e poco dopo la latrina, il gabinetto esterno. Sempre nella stessa direzione ma leggermente spostata verso Sud, si trovava una capanna in muratura adibita a forno, dove si cuoceva il pane una volta a settimana. Sul lato Est, all’esterno, dopo l’aia vi era un profondo pozzo artesiano utilizzato per abbeverare gli animali e utilizzato per attingere l’acqua potabile per gli usi della casa. Sul lato Nord, staccato dall’edificio, in prossimità della stalla vi era un grande letamaio che veniva svuotato nei mesi di agosto e settembre per concimare il terreno. Nella parte Nord- Est vi erano i pagliai del fieno, della paglia e della pula. Tutto il perimetro della casa colonica era recintato con canne legate con fil di ferro e legami. Sul davanti, un enorme gelso, “moro” ospitava alla sommità un grande canestro che conteneva le mele per l’inverno, protette da apposita paglia.
Superate le scale esterne, che terminavano in un fantastico terrazzino coperto, ornato da ampi finestroni che si aprivano sul fondovalle, si accedeva a un pianerottolo alla cui destra vi era una stanza adibita a foresteria per parenti e amici; subito dopo, sempre sullo stesso lato, un altro locale era usato come dispensa. Sulla sinistra del corridoio si apriva un appartamentino, due stanze e cucina, utilizzato dai falegnami, il cui titolare aveva sposato una sorella di nonno pacifico. Varcato il corridoio, una porta immetteva nell’appartamento della famiglia di nonno Pacifico che aveva la stanza da letto sulla destra. A sinistra c’era la camera di uno zio non sposato e dei tre figli maschi di zio Armando, fratello di mia mamma. Si entrava poi nella grande cucina adibita a mensa, con un grande camino e sul fondo uno sciacquaio. Dalla stessa cucina si accedeva alla camera di zio Armando e di sua moglie. Le tre figlie femmine condividevano la stanza con una zia, sorella di zio Armando, non sposata. Sulla sinistra della cucina, un ampio locale era utilizzato come magazzino per le granaglie e a sala mensa quando c’erano molti invitati. Sulla sinistra della stessa cucina, una scala di legno conduceva alla soffitta- mansarda, chiusa da una porta scura che a noi bambini incuteva un po’ di paura nel vederla. In fondo alla cucina, sulla destra si apriva una grande finestra dalla quale si potevano vedere tutti i campi dietro casa e l’altra strada che, superato un bivio, portava anch’essa verso Macerata. Ricordo che mi piaceva affacciarmi per scorgere da lontano l’incrocio di strade.
Ero molto legato alla casa dei nonni materni. Amalia Monteverde, la mia mamma e zia Nerina Monteverde, due sorelle, si sono sposate rispettivamente con due fratelli: Luigi, mio papà e Alberto Giustozzi, mio zio. La famiglia d’origine di questi ultimi proveniva da Corridonia, frazione di San Claudio. La casa esiste tuttora, anche se abbandonata da mezzo secolo. È sulla sommità di una collina che guarda la sottostante linea ferrata Civitanova-Macerata-Fabriano. Sono sempre state le colline accarezzate dal vento, lo scenario della mia infanzia e della mia prima giovinezza. La terra coltivata era poca per sfamare anche altri fratelli di mio nonno paterno con le rispettive famiglie. Ecco perché, nonno Giuseppe decise di trasferirsi a Santa Lucia di Morrovalle e coltivare, come mezzadro, la terra di proprietà del conte Carlo Lazzarini. Mio papà, mio zio, mia zia e la mia mamma hanno vissuto una vita insieme, prima nelle rispettive famiglie di origine, poi nelle loro nuove famiglie, sotto lo stesso tetto per circa quarant’anni nella piccola frazione di campagna, condividendo gioia e preoccupazioni, d’amore e d’accordo nella serenità del lavoro e del timor di Dio.
Le occasioni per far visita ai nonni materni erano numerose. Partivamo da Santa Lucia, frazione di Morrovalle, di buonora, a piedi fino a San Claudio, da qui, in treno fino alla stazione di Corridonia. La gioia del viaggio era grande quando vedevamo sbucare la locomotiva a vapore che eruttava dal fumaiolo i suoi pennacchi di fumo. Lasciato il treno, di nuovo a piedi, passando per le scorciatoie, arrivavamo alla “chiesetta de Jachì”, annessa alla villa Zampi. Qui, dopo la Santa Messa, a me, a mio fratello, a mia cugina, figlia di mia zia Nerina, era d’obbligo comprarci le pizzette fritte appena sfornate. Non le dimentico nemmeno oggi, che sono passati più di sessant’anni. Ho letto su Internet che la villa, il parco annesso e la chiesetta sono in vendita. Ci si augura che non sia stravolto nulla di quanto esiste. La chiesetta fu oggetto di studio alcuni anni fa per opera dell’Archeoclub di Macerata. “Giuseppe Zamponi, detto Jachì, nel 1870, costruì lungo la Carrareccia del sale, la propria villa e accanto, una chiesetta, intitolata a S. Maria Nuova, in località Acquevive-Macerata. Il piccolo edificio sacro è un’imitazione, in scala ridotta, del tempio dedicato a Maria Ausiliatrice, voluto da don Bosco a Torino, per questo la chiesetta di Acquevive fu dedicata a S. Maria Nuova. Vi si officiava la Messa tutte le domeniche per gli abitanti dei dintorni”.
Terminata la sosta, di nuovo a piedi fino alla casa della nonna, dove erano ad accoglierci tutti i sei figli di zio Armando. I più grandicelli erano in casa ad aiutare la mamma e la nonna, i più piccoli si annunciavano lungo la strada. Alcuni ci salutavano nascosti sugli alberi di ciliegie che costeggiavano il sentiero in terra battuta, altri erano ai suoi bordi. Qualche volta, a questi cugini se ne univano altri che venivano anch’essi a parente dalla nonna. Insomma, quando eravamo tutti, per le scale della casa e sul cortile potevamo raggiungere anche le tredici unità. Spesso, poiché un cugino abitava poco lontano dalla casa di mia nonna, assieme a lui venivano anche alcune sue cugine, figlie di due fratelli del papà, che abitavano sotto lo stesso tetto, com’era costume nelle famiglie patriarcali di un tempo. La loro casa sembrava davvero un grande castello medievale, tanto era maestosa. Esiste tuttora, anche se disabitata da anni.
Ivano Pandolfi, questo il nome di mio cugino, abitando vicino, si recava spesso nella casa dei nonni, quasi a diventare un figlio adottivo di nonna Maria che non lesinava mai, ricorda lui stesso, di preparargli gustose colazioni di latte appena munto, con pane fresco. Sono profumi e sapori che rimangono nel gran serbatoio della memoria nonostante siano passati tanti anni. Anche lui ricorda la “Chiesetta de Jachì” sempre piena di gente alla messa della domenica, la caccia ai nidi di uccelli rari nel boschetto “Cerretà”, i cani della villa Tartuferi, le scorpacciate di frutta fresca, la pesca a mano nel fiume Chienti, l’asfaltatura della “Carrareccia” e la conta delle auto, quattro, cinque al giorno. Proprio perché, quasi di casa dai nonni materni, è stato lui a comunicarmi informazioni precise sugli spazi esterni e interni della casa sulla collina e a fornirmi altri particolari, tanto che l’articolo può essere considerato come il risultato di una scrittura a quattro mani.
Ci si ritrovava sempre numerosi nella casa dei nonni materni in occasione della trebbiatura. Arrivavamo alla casa della nonna nel tardo pomeriggio. Dopo aver fatto cena, eravamo invitati ad andare a dormire, perché ci saremmo dovuti alzare all’indomani molto presto se volevamo assistere alla trebbiatura. Si obbediva quasi sempre. Spesse volte succedeva però che ci svegliavano a trebbiatura quasi ultimata e allora ci invadeva un po’ di tristezza. D’altronde eravamo andati proprio per quello. Forse si dimenticavano o forse lo facevano apposta perché non volevano averci tra i piedi quando loro avevano da lavorare, chi sul barcone, chi alla pesa, chi su pagliaio. Non saltavamo però le grandi mangiate che si facevano al termine della trebbiatura. La tavolata era imbandita sempre all’aperto. Si addentavano cosciotti di pollo, si mangiava pasta al sugo di papera e si beveva a volontà acqua, spuma e aranciata. Era anche l’occasione per conoscere altre famiglie che prestavano la loro opera nei grandi lavori agricoli: lo vàtte, la vendemmia, la scartocciatura.
La vecchia casa sulla collina, meta delle nostre visite, è stata demolita molti anni fa e sostituita da un’altra che è leggermente spostata più indietro rispetto alla sua posizione originaria. E’ un edificio grande, bello perché nuovo, ma del tutto anonimo. Non ha nulla dell’architettura rurale di un tempo. Nei primi anni del mio ritorno nelle Marche sono stato qualche volta nei luoghi della mia infanzia, quando accompagnavo in macchina una signora di Civitanova Marche che aveva vissuto per qualche anno nella villa Zampi, avendone sposato il figlio. Andava a far visita alle sue cognate che non si erano sposate e che vivevano sole nella vecchia casa paterna. Approfittavo di queste visite fugaci per sbirciare l’interno della chiesetta de Jachì e, ripresa la macchina, salivo lungo la strada che portava alla casa dei nonni materni. Ora che anche la mia mamma, Amalia (1924- 2017), l’ultima dei Monteverde della seconda generazione, non c’è più, perché deceduta l’11 luglio di questo anno, rimangono solo i ricordi che non muoiono mai. Rappresentano il legame con il passato. È una storia minima, comune a tante altre. L’ho voluta ricordare perché la storia è fatta dall’insieme di mille storie minime che non devono essere mai dimenticate. •