Dai ponti e dalle stazioni di un’epoca all’innominabile attuale
Incipit. Romanticismo nel mio raccontare? Sicuramente c’è. Ma a volte capita che, ragionando con il cuore, si arrivi laddove la sola mente non arriva.
Quando transito da Belmonte Piceno sino a Servigliano, preferisco la strada stretta alla destra del fiume Tenna. Sei metri molti scarsi di carreggiata.
Poco prima di raggiungere l’antica Castel Clementino sono sempre attratto da un vecchio ponte rimasto monco, con poche arcate. Eppure maestoso sebbene triste. Le auto passano sotto una di queste arcate. Le restanti sono come finissero nel nulla, aggredite dalla ruggine e dalle piante parassite. Finis!
Rimango spesso a guardarlo, come fosse un residuo di un’altra civiltà, quella della macchina a vapore, la potenza, il futuro da conquistare.
È il vecchio ponte della ferrovia. Un’opera ardita, la ferrovia, risalente ai primi del Novecento. «Lu trinittu», come lo chiamavano le generazione precedenti la mia, partiva da Porto San Giorgio per arrivare ad Amandola. A «scartamento ridotto», si precisava subito dopo. Per dire: lento, a un solo binario, prima a sbuffo poi elettrificato. Ma senza dimenticare che per mezzo secolo, dal 1909 al 1956, fu cerniera che univa mare collina e monte.
Quel manufatto dà ancora l’idea di solidità. Le bombe tedesche lo colpirono duramente nel ’44. Così come il ponte di Grottazzolina e il viadotto della Madonna del Ferro di Fermo. Occorreva farli saltare per coprire la ritirata e ostacolare l’avanzata delle truppe alleate.
Vennero tutti ricostruiti. Si era al tempo della… solidità, dello sviluppo, del pensiero positivo.
Oggi, per dirla con Roberto Calasso: «La sensazione più precisa e acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee di sdoppiano, i tessuti si sfilacciano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’“innominabile attuale”».
Ho rifatto, un poco a piedi, molto più in macchina, il percorso della vecchia ferrovia. Da Porto San Giorgio, attraversando il casello numero 1, si sale verso il cimitero di Fermo per poi passare il tunnel sottostante la superstrada Fermo-Porto San Giorgio. C’era un altro casello un po’ più avanti. È diventato una bella palazzina dal colore rosso-mattone che un po’ ricorda l’origine e un po’ la tradisce. Più avanti c’è una deviazione: il tronchetto che consentiva al trenino di arrivare sin quasi a piazza del Popolo, a Fermo. L’altro tratto portava in basso, al fiume. Stazioni di Monte Urano, di Montegiorgio, Servigliano, Montefalcone-Smerillo, Amandola. Quest’ultima è ancora bella da vedere. Servigliano l’ha recuperata bene.
Immagino i passeggeri: donne con le ceste piene di uova, uomini con cappello, panciotto e gilet, bambini con i calzoni corti e studenti che raggiungevano soprattutto l’ITI Montani. Ragazzi che ad ottobre, mentre lu trinittu saliva sbuffando, avevano tempo di scendere dalle carrozze e staccare qualche mela, un grappolo di uva tardiva, qualche arancia. Poi l’auto, la scelta su gomma, le strade larghe, la velocità.
E nessuno che abbia il coraggio, se non a parole, di rilanciare un treno per i Sibillini. Per poesia? E se fosse per una nuova economia? •