Se Esiste un territorio in tutta la provincia di Macerata, oggi completamente abbandonato, questo è senz’altro quello delle Cervare. Lo spopolamento nella seconda metà degli anni sessanta, e non si è più fermato. La chiesetta è chiusa da decenni. Rimane solo il ristorante di Armida Marcuccio. “Studi recenti hanno scoperto che un tempo in questo luogo c’erano: il Castello di Posoli con il tempio di Apollo e vari edifici religiosi; ancora oggi è visibile una grande stele funeraria che segna il confine fra i territori di Montelupone, Macerata e Morrovalle. Alcuni documenti, risalenti all’anno mille, testimoniano che l’Abbazia di S. Apollinare in Classe (Ravenna) aveva nella zona dei possedimenti, unitamente al castello. Un’importante strada romana collegava Castrum Posoli con le maggiori città romane della zona: Auximum, Potentia, Firmum”. Gli abitanti del posto chiamano la grande stele funeraria con il termine “Scorofione”. Tracce della strada romana sono ancora visibili per alcuni tratti.
Per la vastità del territorio, molti dividono le basse Cervare, delimitate dal fosso di fondovalle e la strada, da quelle alte, situate nei comuni di Montelupone e di Macerata. Il termine Cervare può far pensare che in passato, il territorio fosse popolato di cervi erranti. Alcuni studiosi precisano che: “Il nome rimanda al sanscrito Sarvari ed al greco Kerberos. Ambedue le parole significano l’oscurità della notte. Era la Notte – dunque – quella a cui si rendeva culto nell’estremità, verso oriente, del nostro territorio (Macerata), appunto là dove nel Medioevo si trovava l’Abbazia di S. Maria in Cerbaria” (R. Foglietti, Conferenze sulla storia antica dell’attuale territorio maceratese, in Pietro Diletti, Per la storia di Morrovalle, contributi e ricerche, pag. 31, Macerata, maggio 1991). Oggi l’oscurità della notte domina incontrastata per diversi chilometri.
Non era così quando tutto il territorio era abitato da numerose famiglie di contadini mezzadri: Patrià (Cingolani), Pietrante (Lattanzi), Capità (Capitani), Staffolani, Iendì (Gentili), Moricò (Moriconi), Vorò (Paolucci). E’ solo un piccolo e modesto elenco. Mi ripropongo di dedicare uno studio più approfondito. I cognomi scritti in corsivo sono quelli dialettali. E’ difficile risalire al significato originario della parola. Anche il cognome Gentili, scritto in Italiano, era dialettizzato in Iendì. Il primo termine era troppo raffinato per chi lavorava nei campi e aveva da fare con le mucche nelle stalle. La lingua italiana apparteneva a un ceto troppo lontano da quello contadino.
I bambini delle Cervare frequentavano la scuola elementare a Santa Lucia, frazione di Morrovalle. Partivano da casa molto presto. Attraversavano a piedi i campi, scendevano sul fondovalle e risalivano la collina. Il percorso era di due chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Giunti a destinazione, almeno avessero avuto una scuola degna di questo nome. Niente affatto. Frequentavano come i loro coetanei di Santa Lucia le pluriclassi. D’altronde ai figli dei contadini non era permesso avere un avvenire diverso da quello dei loro nonni e dei genitori. La cultura era un frutto proibito, come la mela del Paradiso Terrestre. La scuola era una modesta stanza di un’abitazione privata. Il nuovo edificio, quello dove è ora la sede del circolo Acli, è stato costruito alla fine degli anni cinquanta.
Don Milani diceva che la differenza tra un ragazzo di campagna e di città è da ricercare nella mancanza di prepotenza che il primo non ha proprio, mentre il secondo ne ha da vendere. Ricordo che, quando andavo assieme ad altri ragazzi della campagna nel capoluogo comunale per la preparazione alla prima comunione, stavo per alcuni giorni insieme ai ragazzi di paese. Avevano quasi sempre da sbeffeggiarci, perché insieme al parroco avevano da ridire sulla nostra preparazione. Eravamo stati preparati da don Primo Antonelli, una pasta di sacerdote, più colto del parroco che sapeva essere prepotente e arrogante. Non mi sono mai pianto addosso ma certi sassolini dalla scarpa voglio togliermeli di tanto in tanto: “Ho un sassolino nella scarpa, ahi! / Che mi fa tanto tanto male, ahi!”. Al Liceo bisticciavo sempre con la Matematica, l’Algebra e la Trigonometria. Il professore entrava in classe e scriveva sulla lavagna, a getto continuo, operazioni, problemi, frazioni. Qualche volta chiedevo timidamente di spiegarmi di nuovo alcune cose che non avevo capito. Mi rispondeva seccato: “Sì, sì, sei un ciuccio. Capirai un altro anno”. Con l’impegno, il lavoro e un anno ripetuto, agli esami di Maturità mi dissero che avrei potuto scegliere qualsiasi corso di Laurea, anche quello in Matematica. Il mio non è vittimismo.
M’iscrivo all’università, facoltà di Lettere e Filosofia. Sostengo tutti gli esami. Preparo la tesi di Laurea che avrei dato a ottobre e al principio dell’estate dello stesso anno, per caso, alla fermata dell’autobus, in una cittadina del fermano, incontro quello che al Liceo, molti anni prima, era stato il mio insegnante di Fisica. Lo saluto in modo garbato. Per tutta risposta, lui, chiamandomi per il cognome, nella scuola si usava così, d’altronde Erving Goffman la definisce come una delle tante istituzioni totali, al pari della caserma, mi fa: “Tu a scuola non capivi niente”, in realtà me lo disse con una parolaccia che non oso riportare, anche se don Milani osservava che il galateo, legge mondana, chissà perché sia diventato anche una legge della Chiesa.
I figli dei contadini delle Cervare e di Santa Lucia hanno abbandonato il territorio assieme ai loro padri, pochi di questi ultimi sono rimasti fino agli inizi degli anni settanta, poi anche loro hanno lasciato la campagna. Sono andati a vivere nella stazione di Morrovalle, a Civitanova Marche, a Santa Maria Apparente, a Monte San Giusto, a Montegranaro, paesi del boom calzaturiero. Con i pochi guadagni messi da parte, quelli soprattutto derivanti dalla coltivazione delle barbabietole, hanno costruito le case. Quelle delle Cervare, dove loro abitavano, sono per lo più abbandonate, le poche ristrutturate sono abitate da gente che viene da Macerata o da altrove ma che non ha niente a che fare con la terra e con i suoi ritmi.
Oggi è triste vedere che Santa Lucia di Morrovalle e le Cervare sono spopolate. Non c’è mai stato un piano di lottizzazione. La gente, appena ha potuto, se n’è andata. E’ stato così per questi due territori ma anche per molti altri della provincia di Macerata e di Fermo. Se si aggiungono poi le ferite inferte dal terremoto, la crisi economica in atto ormai da diversi anni, è difficile immaginare un futuro migliore del presente. Fa rabbia poi vedere capannoni, ogni paese piccolo o grande che sia ha la sua area industriale, chiusi e privi di vita perché il lavoro non c’è o è stato delocalizzato. Le speranze di una vita migliore, aggrappate al boom del calzaturiero, sono andate in frantumi. “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie” (Ungaretti). Soffre la campagna abbandonata, i campi sono erosi dal sole e dalla pioggia e soggetti a continui smottamenti perché non ci sono più quelli che un tempo erano le guardie ecologiche volontarie senza sapere di esserlo, i contadini. I paesi sono diventati sempre più ingrigiti e tristi. Qualcuno suggerisce il ritorno alla terra. Ma come e da dove iniziare? Dalla pecorella e dalla capretta? •
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