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Frutti di giustizia e di pace vera

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Il primo sguardo è per la penisola coreana – due popoli che parlano la stessa lingua sono fratelli, aveva detto nel suo viaggio a Seoul – per quella stretta di mano al 38º parallelo che cancella, questo il desiderio e la sensazione, un conflitto formalmente mai concluso dal 1950.
Ancora la pace, “la speranza di un futuro di pace”, nelle parole di Papa Francesco all’Angelus, in questa quinta domenica del tempo di Pasqua. Il primo sguardo è per la penisola coreana – due popoli che parlano la stessa lingua sono fratelli, aveva detto nel suo viaggio a Seoul – per quella stretta di mano al 38º parallelo che cancella, questo il desiderio e la sensazione, un conflitto formalmente mai concluso dal 1950. Timori che in questi ultimi mesi erano cresciuti, soprattutto per il braccio di ferro in atto tra Stati Uniti e Corea del nord. Francesco invita alla preghiera non solo per la Corea, ma anche – il primo maggio al Divino Amore, il rosario per la pace – per la Siria e per il mondo intero. Non è la prima volta che chiede preghiere per il paese teatro di un conflitto che dura da sette anni.
Solo nove giorni prima, il Papa era a Molfetta e Alessano, per pregare sulla tomba di don Tonino Bello. La pace è solidarietà con il prossimo, diceva don Tonino, è insonnia perché la gente stia bene, condividere con il fratello gioie e dolori, progetti e speranze. Così nei suoi “auguri scomodi” per il Natale, scriveva: “gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame”. C’è sintonia con gli appelli che Francesco ha ripetuto, per chiedere che si fermino violenze e conflitti, il cui prezzo più alto è pagato dai poveri.
Appello nella domenica in cui la liturgia propone, nel quarto Vangelo, un altro dei ‘discorsi di addio’ di Gesù. Dopo l’immagine del buon pastore, domenica scorsa, Giovanni propone la figura della vite e dei tralci, per dire il legame stretto tra il Signore e i suoi discepoli. La vite appartiene alla storia del popolo di Israele, immagine legata al mondo agricolo. Immagine familiare, in quel tempo, per proporre un legame forte per la cultura contadina;simbolo di vita, di radici profonde che resistono nel tempo. Come non ricordare, ancora, che Papa Benedetto utilizza proprio l’immagine della vigna – “semplice, umile operaio nella vigna del Signore” – per dire il compito che lo attendeva come successore di Pietro. Gesù, dunque, è la vita e Dio, il “Padre mio” come leggiamo in Giovanni, è l’agricoltore. Immagine agreste, si diceva, per sottolineare che solo uniti al Signore possiamo portare “molto frutto”. La vite, ricorda Papa Francesco all’Angelus, “è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo ‘rimanere’, che nel brano è ripetuto sette volte”.
Ma il verbo propone una staticità che, nello stesso tempo, indica movimento, ricorda il Papa, perché rimanere nel Signore chiede “il coraggio di uscire da noi stessi, dalle nostre comodità, dai nostri spazi ristretti e protetti, per inoltrarci nel mare aperto delle necessità degli altri e dare ampio respiro alla nostra testimonianza cristiana nel mondo”.
Coraggio che nasce “dalla fede nel Signore”, ricorda Francesco. E uno dei “frutti più maturi che scaturisce dalla comunione con Cristo è, infatti, l’impegno di carità verso il prossimo”. Impegno frutto dell’incontro e del rimanere con Gesù, perché il “dinamismo della carità del credente non è frutto di strategie, non nasce da sollecitazioni esterne, da istanze sociali o ideologiche”, ma, appunto, dall’essere i tralci di quella vite, il Signore, “dalla quale assorbiamo la linfa, cioè la ‘vita’ per portare nella società un modo diverso di vivere e di spendersi, che mette al primo posto gli ultimi”. Proprio quel restare in Cristo rende capaci di “portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace”. È questa la chiave della chiamata alla santità rivolta a tutti: vivere con amore e offrire “ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova”, come scrive Francesco nella sua ultima Esortazione apostolica Gaudete et exsultate. •

Fabio Zavattaro

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