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L’abbonamento è un atto di fede: non si discute

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“L’abbonamento è un atto di fede”. Così a Fermo recitava il mega striscione affisso nei pressi della rotonda che dai maxi parcheggi collega su viale Trento, dove si erge il tempio del Recchioni. Con questo forte richiamo i fedeli venivano esortati a legarsi con un solenne rito iniziatico alla stagione dei canarini. Quella scritta da parte dei sacerdoti e dei capi del popolo dice a credenti, proseliti e incirconcisi che non sono tanto la convenienza o la possibilità di avere un posto assicurato tutte le domeniche, quanto la passione “sfegatata”, la condivisione di un ideale, la fede gialloblu a motivare la scelta di mettere mano al portafogli ed acquistare il pass per lo stadio. “Perché perché la domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita?”. Il richiamo del rettangolo di gioco già ai tempi di Rita Pavone era più forte di quello di una donna, vinceva sui legami affettivi e sulle passioni della carne. Figuriamoci, allora, se contro la forza di gravità del pallone possa avere qualche minima chance di vittoria la predica di don Anselmo o di Padre Girolamo. San Siro, ad esempio, è stato da sempre un santo più potente di San Pio X, Sant’Alessandro, San Gabriele, San Francesco, Santa Caterina, ecc.
Per andare in pellegrinaggio verso il suo santuario si è disposti a fare ore e ore di viaggio in pullman, a versare sangue facendo a pugni per la sua causa, a cantare a squarciagola, a perdere una giornata di lavoro o di scuola, a pagare quote di iscrizione e a fare sottoscrizioni, a indossare la stola o la mitria rossonere.
La notte di Pasqua di quest’anno coincise con la super sfida dello Stadium di Torino tra Juventus e Milan. Un ministro del culto cattolico, prima di recarsi a presiedere la celebrazione più importante dell’intero anno liturgico, cedette alla tentazione di passare prima dalle parti del club dei tifosi di cui era socio, per assistere almeno al primo tempo della partita. La sua squadra del cuore, dopo l’iniziale svantaggio, riuscì momentaneamente a pareggiare con un goal del capitano e questo portò il santo curato a fare un urlo tanto forte da perdere la voce, compromettendo lo svolgimento della celebrazione successiva. Insomma, l’esultanza per l’idolo della curva era stata superiore al grido di vittoria della vita sulla morte che in quella notte andava risuonando in tutto l’universo cattolico. La vera Pasqua, per quel prete, era già stata consumata al club, a guisa di vera e propria idolatria. In chiesa, anziché ascoltare la narrazione della storia della salvezza, era assalito dal pensiero di come potesse essere andata a finire la partita. La fortissima delusione per l’amara sconfitta lo portò alla considerazione della vacuità delle cose di questo mondo e della sua fede sportiva, ma anche di quella religiosa. •

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