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Il vaccino del cuore? La cura del prossimo

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Nell’ultima Enciclica Fratelli Tutti, papa Francesco pone la parabola del buon Samaritano come «icona illuminante» capace di discernere il nostro agire e di rappresentare, allo stesso tempo, un importante modello sociale e civile per la ricostruzione di una rinnovata vita sociale e personale. Nell’agire caritatevole del buon Samaritano, il pontefice ritrova alcuni movimenti esistenziali necessari per dare vita ad un agire morale e sociale improntato sulla cura e sul prendersi cura. Essi sono rappresenti dall’«uscita da se stessi», dall’«incontro con il “volto” dell’altro», e, infine, dalla prassi del «prendersi cura» di chi è malato e nel bisogno. Tuttavia, tale movimento esistenziale si scontra, secondo il pontefice, con una cultura contemporanea dominata purtroppo da un «analfabetismo della cura», dove si è incapaci di «uscire da se stessi» e dedicare tempo e cura a chi soffre. «Diciamolo – si legge in Fratelli Tutti al n. 64 – siamo cresciuti in tanti aspetti, ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate». Il progresso tecno-scientifico ha certamente allargato molteplici spazi di libertà e ha ampliato le fonti della nostra conoscenza, ma, forse, non ci ha permesso di migliorare il linguaggio e la prassi del «curare e prendersi cura».
La celebrazione della XXIX Giornata Mondiale del Malato, che si è tenuta l’11 febbraio 2021, è l’occasione opportuna per riflettere sul valore del «prendersi cura del sofferente e del malato» e, allo stesso tempo, per recuperare il senso profondo dell’esistenza umana. A tale scopo, la presente riflessione si muove, dapprima, nel considerare il valore antropologico e filosofico della cura, per poi determinare la «differenza cristiana della cura proximi», e concludere con alcune considerazioni sul rapporto tra cura e prendersi cura nel contesto della cura medica.

Il mito di «Cura»
Nel suo Liber Fabularum il mitografo Igino, un autore latino del secondo secolo dopo Cristo, tramanda un racconto che merita di essere riportato per intero, poiché permette, a nostro avviso, di ripensare in profondità il senso e il valore dell’atto del curare.

La «Cura», mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa avesse fatto, interviene Giove. La «Cura» lo prega di infondere lo spirito a quello che aveva formato. Giove acconsente volentieri. Ma quando la «Cura» pretese di imporre il suo nome a ciò che ave- va formato, Giove glielo proibì e pretendeva che fosse imposto il proprio. Mentre la «Cura» e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato formato fosse imposto il proprio nome, perché gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò loro la seguente equa decisione: «Tu, Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu, Terra, poiché hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fintanto che esso vivrà lo possieda la Cura. Poiché però la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra).

Questo piccolo mito, come sostiene Warren Reich, pioniere della bioetica nordamericana, è servito, più di qualunque altra fonte, a plasmare l’idea di cura in psicologia, filosofica, etica. Il linguaggio mitico è un linguaggio originario: il mito colpisce per la sua capacità di rimandare ad una verità profonda concernente il senso ultimo delle cose, di farlo in un modo sempre nuovamente interessante, senza cioè mai esaurire completamente ciò di cui parla, alla maniera di un concetto o di una formula. Come ben suggerisce Paul Ricoeur, i miti continuamente «danno da pensare». In questo senso, il mito di Cura dice qualcosa di fondamentale circa il senso dell’esperienza umana come esperienza del reciproco prendersi cura. Esso riflette infatti una profonda comprensione della natura umana e fornisce, al tempo stesso, una chiave interpretativa della tensione profonda che attraversa l’esistenza. Emerge infatti l’idea che la cura è, in un certo senso, il punto di contatto fra divino e umano, tra l’elemento corporeo e l’elemento spirituale. Cura, quale principio formante, mantiene l’essere umano fatto di terra e spirito in una unità sempre sfuggente. Nel suo «mantenere la presa» su entrambi gli elementi costitutivi, Cura guarisce il male radicale dell’uomo, la separazione, e assicura il bene grande, sebbene instabile, dell’unità.
In questo orizzonte, il «curare», inteso come sollecito «prendersi cura di», sembra essere qualcosa di più di un elemento tra gli altri nella descrizione dell’esperienza umana. Esso rappresenta piuttosto una struttura fondamentale, archetipa, dalla quale l’etica spontaneamente sgorga. In questo senso, essere al mondo significa prenderci cura di qualcosa/qualcuno. Ma ciò di cui dobbiamo prenderci cura non è soltanto il mondo delle cose. Il destino dell’uomo, la sua vocazione, la natura stessa dell’uomo e della vita è la voce che lo chiama a prendersi cura dell’altro, ad essere-per-gli-altri, a riconoscere il volto del sofferente, ad accogliere l’epifania dell’alterità che viene a noi nell’incontro con persone malate, fragili, bisognose.

La differenza cristiana: la «cura proximi»
Oltre al piano mitologico e filosofico, la cura ha trovato una sua particolare declinazione nella tradizione cristiana come insieme di pratiche che potremmo raggruppare sotto l’espressione «cura proximi». Essa si riferisce essenzialmente alla cura delle persone in difficoltà al fine di ritrovare la propria salute spirituale, mentale o fisica. La cura per il prossimo diviene in tal modo la «differenza cristiana» scaturita dalla salvezza operata da Cristo. In effetti, nel mondo classico pagano non vi era nessuno stimolo a vivere uno stile caritatevole. Differentemente dai popoli pagani, il cristianesimo ha invece promosso gesti gratuiti di carità e di cura verso i malati e i bisognosi, trasformando l’assistenza ai malati nell’esperienza della mediazione della tenerezza e della compassione divina. Secondo lo storico della medicina Henry E. Sigerist, la fede cristiana ha affermato:
il più rivoluzionario e decisivo cambiamento nell’attenzione della società verso i malati. Il cristianesimo si affacciò al mondo come la religione della guarigione, come il gioioso vangelo del Redentore e della Redenzione. Esso si rivolse ai diseredati, ai malati e agli afflitti, promettendo loro guarigione e ristoro sia spirituali che fisici. Visitare gli ammalati e i poveri della comunità divenne un obbligo per il cristiano. Lo status sociale dell’uomo malato divenne totalmente diverso rispetto a quello che occupava prima. Così egli assunse una posizione di rilievo che, da allora in poi, non avrebbe più cambiato.

Il fondamento cristologico della cura rintracciabile nei numerosi racconti evangelici di guarigione operati da Gesù, la feconda circolarità ermeneutica delineata dalle categorie di salute/salvezza, la dottrina dell’imago Dei, determinano una «differenza cristiana» capace inoltre di dare vita a strutture sanitarie: orfanotrofi, nosocomi, diaconie e xenodochia, nascono accanto a monasteri e residenze episcopali già nei primi secoli del cristianesimo. L’annuncio del vangelo è così strettamente connesso alla cura del prossimo.

Curare e prendersi cura nella medicina
Da alcuni anni, nel contesto medico e assistenziale, si parla dell’importanza di operare il passaggio dal curare al prendersi cura. Con la parola «cura» si vuole far riferimento all’azione di guarigione, cioè di rimozione della causa di un disturbo o di una malattia, attraverso tutti quegli interventi finalizzati alla risoluzione, laddove possibile, della malattia. In questo modo, la cura dà al paziente l’opportunità di ripristinare lo stesso stato di salute presente prima dell’insorgere della malattia. L’espressione prendersi cura, invece, esprime il coinvolgimento personale dell’operatore sanitario con la persona che soffre, il «movimento esistenziale del Buon Samaritano» che si esprime nell’incontro del volto dell’altro, nella prossimità di cuore, attraverso la compassione, ovvero “patire con”, nella premura, nell’incoraggiamento e nel sostegno emotivo. Nella storia della assistenza sanitaria il concetto di cura e il concetto del prendersi cura hanno conosciuto vari destini. In questi ultimi tempi, tuttavia, si assiste all’esigenza di integrare i due aspetti dell’assistenza, il curare e il prendersi cura. Nel concetto del prendersi cura sono quindi compresi la competenza professionale e il coinvolgimento personale che porta a centrarsi nella persona del malato, ponendolo al centro del nostro agire: in questo modo, il malato non è oggetto, ma soggetto di cura. Per raggiungere questo obiettivo occorre entrare in sintonia con il malato e i suoi familiari con quell’atteggiamento che si chiama ascolto empatico.

Per concludere
«Normalmente la prima domanda che facciamo ad una persona, quando la incontriamo per la prima volta, dopo il nome è: di cosa di occupi? Che lavoro fai? Non le chiediamo: di chi ti occupi? Di chi di prendi cura?». Queste domande e questo breve commento riportato da Alessandra Smerilli all’Enciclica Fratelli Tutti potrebbero rappresentare un efficace strumento per attivare un radicale cambiamento culturale incentrato sul prendersi cura del prossimo. •

Sebastiano Serafini, Cappellano del Presidio Ospedaliero “A. Murri” di Fermo, Direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della Salute, Vita e Bioetica, Assistente ecclesiastico diocesano dell’Associazione Medici Cattolici Italiani

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