Politica come forma di carità

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«La formazione politica non è nozionistica: è fatta di educazione a comportamenti rispettosi delle persone, delle opinioni e delle istituzioni. Il rispetto si impara attraverso buoni maestri o attraverso dolorose sconfitte; a volte non si impara affatto». Lo scrive Luciano Violante nel suo ultimissimo libro dal titolo Insegna Creonte. Il già magistrato, professore di Diritto e Procedura penale e parlamentare, indaga e approfondisce il tema cruciale e illusorio dell’onnipotenza, «che è il morbo dell’attività politica e che Creonte, nella lettura dell’Antigone come tragedia di un potere che si autodistrugge, incarna in maniera esemplare». Una riflessione attualissima e drammatica proprio in questi tempi di dissolvimento del concetto di politica come forma più alta di carità e di attenzione al comune bene. Aldo Moro era solito ripetere che la funzione del politico vero era quello di orientare e guidare, e dare il buon esempio. Erano i tempi dei grandi partiti popolari, dai forti radicamenti culturali: Dc, PCI e anche, se in proporzioni molto minori, MSI. I cui leader, specie De Gasperi e Togliatti, furono capaci nel 1946 di chiudere la guerra civile e ricostruire l’unità nazionale.
Leggendo Il Signore degli anelli, Tolkien sembra percepire con decenni di anticipo il rischio dell’onnipotenza della classe dominante o del dominatore che indossa l’anello maledetto.
Quell’anello che trasforma l’uomo, lo stravolge, lo rende irriconoscibile. E lo stacca dal tessuto sociale. Ma se da un canto una certa classe politica sembra aver smarrito la strada, dall’altro, la frantumazione e l’annientamento dei corpi intermedi (i cittadini che si mettono insieme) ha fatto sì che le cinghie di trasmissione dal basso verso l’alto si siano interrotte.
Da due anni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella insiste sulla riscoperta e il rilancio dei corpi intermedi anche come contrappeso all’azione politica di vertice.
Recentemente, il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, Giorgio Vittadini, ha fatto notare che «Va recuperato e magari rinnovato un modello di democrazia secondo gli insegnamenti di Tocqueville, dove la partecipazione alla vita pubblica non è solo legata al voto, ma alla costituzione di una società organizzata attraverso numerosi e diversi corpi sociali.
Non guardando il passato: non dobbiamo ricostruire il 1948 ma recuperare lo slancio dei costituenti e chiederci che cosa necessita la nuova epoca che viviamo». Cantava Giorgio Gaber: «Libertà è partecipazione». Partecipazione!
Papa Francesco ha invitato più volte i cattolici a scendere nell’agone politico, portando il loro modo di essere e la capacità di ricostruire una società diversa, comunitaria, più vera, più umana. Erik Varden, il nuovo vescovo di Trondheim (Norvegia), abate cistercense, ha detto recentemente che «… mentre gli elementi della società secolare e laicista tendono all’esplosione, la Chiesa – per la sua chiamata soprannaturale e per la sua energia di comunione – tende all’incontro». Una nuova umanità, anche politica, anche economica.
Non sappiamo se Machiavelli, il cui Principe fondava il potere politico sul comando, o Tommaso Moro, che invece lo basava sulla persuasione scaturente dai principi etici, videro mai gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, il Buon Governo e il Cattivo Governo, nella Sala del Consiglio dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. 24 uomini (rappresentanti del popolo e delle corporazioni) tengono una corda (cum cordis, stesso cuore), vi si appoggiano e la tirano, e la portano al Comune Bene. Ma quella corda che li collega, scende dall’alto: dalla Sapienza, che è il sapore e l’essenza delle cose, passa attraverso la Giustizia, e viene intrecciata dalla Concordia. È il vivere secondo un’ipotesi di bene comune. Esattamente l’opposto del vivere secondo il proprio interesse (individualismo, nichilismo), che porta con sé impoverimento, violenza, carestia, brutture.
La voce dei cattolici potrà fare la differenza. •

 

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