Rumori e colori dell’autunno: la sgranatura del granturco.
La sgranatura delle pannocchie non avveniva contemporaneamente alla “spannocchiatura”, ma in una fase successiva ed era fatta a mano, prima dell’avvento della sgranatrice meccanica. L’arrivo di quest’ultima faceva rivivere un po’ l’atmosfera della trebbiatura, anche se era tutt’altra cosa. Ma si sa, bastava un nonnulla in una realtà per certi versi sempre immobile a catalizzare l’attenzione di noi ragazzi.
C’era la macchina, il trattore, il frastuono delle cinghie legate al volano, il rumore sordo e prolungato del battitore a far rivivere certe emozioni.
Durante la fase della spannocchiatura, non tutte le pannocchie venivano pulite per intero e liberate dalle foglie, alcune, quelle più belle venivano lasciate ancora con le foglie aperte e legate a mazzi ad un bastone, appese alle travi della capanna per l’essiccazione. Nelle campagne brianzole venivano lasciate ad essiccare nei “casot ” di manzoniana memoria, dove il contadino riponeva nel periodo estivo gli attrezzi da lavoro ed i raccolti.
Le pannocchie venivano poi lavorate nel chiuso della capanna o nella stalla, alla sera, quando i lavori nella campagna erano giunti al termine e si apriva il lungo periodo dei mesi invernali. Ci si sedeva su uno sgabello, si riprendeva il sottile bastoncino di legno usato per la “scartocciatura”, “ul sfilzò” nel dialetto brianzolo e si liberava la pannocchia dai chicchi di granturco, messi poi ad essiccare sull’aia se il tempo era buono, sotto il portico o comunque in spazi ben areati se le giornate erano umide e piovose. Venivano rivoltati più volte al giorno con il rastrello o semplicemente tracciandovi dei solchi con i piedi nudi. Era un lavoro a cui erano addetti soprattutto i ragazzi.
La pellagra
Il granoturco, raccolto in sacchi, veniva portato poi al mulino per ottenerne la farina, quella gialla per la polenta, base fondamentale nei regimi alimentari di una volta. Il granturco era anche chiamato “Carlon” nel milanese, da quando San Carlo Borromeo lo introdusse nelle campagne lombarde e ne incentivò la coltivazione, per sopperire alle proverbiali ricorrenti carestie. Se la fame venne sconfitta, il suo nome rimase a lungo legato alla triste malattia della pellagra, diffusissima nelle campagne del Settentrione d’Italia, ma anche da noi, anche se in misura più contenuta. Nella rivista pellagrologica italiana, anno XII, luglio 1912, nella provincia di Macerata, i pellagrosi ammontavano a 264 unità nel 1881, a 415 nel 1899, a 262 nel 1910 (Cfr. ing. G. B. Cantarutti, La pellagra in Italia negli anni 1881- 1899- 1910, in “Rivista pellagrologica italiana, anno XII, luglio 1912, pag. 161)
L’abuso o meglio la mancanza di integrazione con legumi e verdure nell’alimentazione, solo a base di polenta, portava all’indebolimento di tutto l’organismo fino ad intaccare il sistema nervoso.
Negli ultimi stadi di vita, il pellagroso veniva trattato come un malato mentale e rinchiuso nei manicomi. Le cartelle dell’ospedale Sant’Anna di Como registrano casi di pellagrosi che considerati come malati mentali, venivano curati solo con una “Limonea marziale”, un semplice tranquillante. Il recente studio del prof. Franco Veroli su Ernesta Cottino, la mamma di Sibilla Aleramo e l’ospedale psichiatrico di Macerata, offre un inizio di indagine davvero interessante sulla presenza nella suddetta struttura sanitaria, di malati mentali pellagrosi.
Tutoli e staio
A sgranatura avvenuta, anche i tutoli venivano utilizzati per alimentare il fuoco del camino o delle stufe. Diverso era l’uso nelle cascine brianzole. Con i “luin”, i tutoli, i ragazzi costruivano una sorta di volano. Infilzavano alla base del tutolo tre penne di gallina e lo lanciavano il più lontano possibile, organizzando anche delle gare, oppure infilzavano un chiodo alla base del tutolo, avvolgevano attorno al chiodo una corda legata all’altro capo ad un bastone; facendo girare velocemente quest’ultimo, la corda si srotolava e la freccia partiva a gran velocità
Tra gli arnesi di lavoro utilizzati al tempo della sgranatura del granturco, c’era l’onnipresente staio, “Ul stee”, contenitore rotondo del diametro di 40 cm, in legno o in ferro recante una sbarra di ferro piatta, posta sopra in modo trasversale. Serviva principalmente come unità di misura, per pagare la decima o per misurare la quantità di semente di mais necessaria alla coltivazione di un campo. Un ottimo esemplare è visibile presso il museo delle arti e tradizioni popolari di Civitanova Alta. •