Madre M. Cecilia Borrelli: “Siamo chiamati a custodire le fragilità come luogo di salvezza”.
“La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri. E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi, di apparire fragili, di finire alla mercé di chi ci sta di fronte. Non ci esponiamo mai. Perché ci manca la forza di essere uomini, quella che ci fa accettare i nostri limiti, che ce li fa comprendere, dandogli senso e trasformandoli in energia, in forza appunto.
Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà. Mi piacciono i barboni. Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle, sentire gli odori delle cose, catturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo. Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore”.
Alda Merini
Conoscere i propri limiti è il primo passo da fare.
I limiti rappresentano da una parte il confine della nostra “zona di sicurezza” e dall’altra, il superamento del confine stesso.
È richiesto un equilibrio tra l’accettare ciò che non può essere cambiato e nello stesso tempo essere dinamici e tendere sempre ad un obiettivo.
È il confine di chi siamo e cosa sappiamo fare con consapevolezza, senza subirlo come sconfitta: la nostra vittoria sta nello scoprire appunto le nostre potenzialità.
Nel nostro contesto socio-culturale delirante e mitomane, accettare i nostri limiti diventa davvero difficile e può degenerare in una sofferenza psicologica.
Bisogna essere sempre belli, in forma, destare interesse per simpatia, competenza: è il programma imperante nella nostra epoca.
Tutto questo ha ripercussioni sulla propria autostima, creando figli disadattati e complessati, eternamente insoddisfatti e inadeguati con disturbi psicologici come ansia e depressione.
L’uomo è, nella sua stessa essenza, un “essere-nel-limite”, per cui se non riusciamo a controllare tutto, non dobbiamo né criticarci né colpevolizzarci.
Proprio questo atteggiamento ci fa stare sereni con noi stessi, senza competizioni e senza compulsivo bisogno di mostrare quello che non siamo per rispondere alle aspettative degli altri.
Un ostacolo può essere un banco di prova per scoprire in noi stessi delle possibilità inaspettate. Significativo il racconto che segue.
“Un contadino aveva un vecchio asino, che un giorno cadde in un pozzo ormai secco. L’asino piangeva a dirotto mentre il contadino cercava di tirarlo fuori dal pozzo. Ma, il contadino, non riuscendoci, decise di abbreviare le sofferenze dell’asino coprendolo di terra. Chiese aiuto ad altri contadini e tutti insieme cominciarono a riempire il pozzo.
Il povero asino, vedendo piovere zolle di terra scoppiò in un pianto irrefrenabile.
Poi il pianto cessò e quando il contadino trovò il coraggio di guardare in fondo al pozzo, con grande sorpresa, vide che l’asino era ancora vivo e, scrollandosi di dosso ogni palata di terra, la pressava e la utilizzava come un gradino. A ogni zolla di terra, saliva e si avvicinava al bordo del pozzo, dal quale alla fine riuscì a uscire con un ultimo balzo.
I contadini, allibiti, restarono a guardarlo mentre riprendeva a trottare felice”.
Come l’asino, quando la vita ci butta in pozzi neri sta a noi cercarne di uscirne fuori utilizzando le stesse disgrazie capitateci. Per dirla con le parole di Nietzsche: “Tutto ciò che non mi uccide, mi rende più forte”.
Al di sopra del pensiero psicologico e filosofico, un balzo in avanti con Romano Guardini.
“Chi sono io?”
Guardini c’invita a considerare il mio “io” non solo come unico “dato” su cui basare qualsiasi pretesa di conoscenza certa (il fondamento della filosofia cartesiana), ma anche come “dato” da Dio, da Colui che, creandoci a sua immagine e somiglianza, ha impresso in noi il sigillo divino che ci pone al di sopra del dramma del divenire, come asserisce anche San Giovanni Paolo II ricordando come l’amore del tutto speciale che il Creatore ha per ogni essere umano «gli conferisce una dignità infinita ».
Il Creatore può dire a ciascuno di noi: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto» (Ger 1,5) (cfr Papa Francesco, Enciclica Laudato Sii, n. 65)
Recuperare il rapporto con la propria origine è l’unica possibilità per ovviare all’angoscia esistenziale.
La pretesa di non essere più immagine, bensì archetipo, ha fatto sì che la fiducia si trasformasse in hybris, la presunzione, il mito della propria potenza, sempre in agguato “nei corsi e ricorsi storici”, in cui siamo attualmente coinvolti.
Così, “l’ampiezza smisurata del possibile divenne assenza di luogo” afferma Guardini.
L’armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato è stata distrutta per avere noi preteso di prendere il posto di Dio, rifiutando di riconoscerci come creature limitate.
In questo consiste il “Peccato originale”, che trova nuove forme espressive nella filosofia moderna.
Occorre, quindi, accettare se stessi, nel bene e nel male della nostra esperienza: mai uscire da noi stessi!
Dobbiamo imparare a vivere il pentimento come “una delle più potenti forme di espressione della nostra libertà”. (Guardini)
Attraverso la Redenzione, accade un nuovo inizio, una seconda creazione: una salvezza operata da Dio, ma che si realizza attraverso la libertà dell’uomo, del suo volere ed operare nella sua fede.
Perché il Creatore ci ha lasciati liberi?
Dio vuole vedere l’uomo lottare proprio perché l’ha creato a Sua immagine: non un essere creato come marionetta, uno che riceve comandi in modo passivo, ma come un essere libero e forte per vivere, creare ciò che serve alla propria vita.
Dio provoca l’uomo ad “accettare sé stesso”, ad accettare una crescita verso la grandezza, ad accettare la lotta con la propria origine: la lotta di Giacobbe con Dio dalla quale esce “sfiancato”, ma con una pienezza dentro che colma il vuoto e che libera dalla paura del limite.
Siamo chiamati a custodire le fragilità come luogo di salvezza perché esse manifestano la nostra verità, sono occasione per purificare la nostra fede e ci rendono aperti a lasciarci educare da Dio.
Chiamiamo per nome tutto ciò che abita la nostra mente e il nostro cuore in questo momento: ansie, gioie, dolori, affetti, rancori, progetti e delusioni, timori, desideri, verità ed errori, amore, egoismi, fedeltà e peccato, nostalgie, rimpianti e via dicendo.
Parliamo serenamente di tutto questo con il Padre nostro: scopriremo che lo Spirito Santo e la Parola di Dio attraversano proprio ciò che è più vivo in noi e troveremo pace, consolazione e forza nel cammino di vita.
Effetà, apriti in aramaico, nel dialetto di casa: apriti, come una porta all’ospite, una finestra al sole, le braccia all’amore.
Apriamoci agli altri e a Dio, anche con le nostre ferite, dalle quali la vita esce ed entra.
Forse non ascoltiamo più Dio e neppure l’ uomo.
Sa parlare solo chi sa ascoltare… dono da chiedere sempre per il sordomuto che è in noi: donaci un cuore che ascolta! (Mc 7, 31-37). •
Madre M. Cecilia Borrelli
Abbadessa Monastero Benedettine Fermo