Mio fratello Mimmo è stato alunno di don Pino Puglisi alle scuole superiori e lo ha conosciuto molto meglio di me, tanto che è rimasto sempre legato a lui anche nella lotta per la legalità. Si sono rivisti un mese prima della morte per una cena di ex-alunni. Io invece ho conosciuto il Beato nel 1977 ed ho frequentato da esterno un cammino vocazionale che lui guidava a Palermo. Anche se la mia relazione è stata più occasionale, conservo però un ricordo molto nitido della sua persona e delle sue parole. Il breve pellegrinaggio è iniziato con la visita alla cattedrale dove è collocata la nuova tomba di don Puglisi. Il giorno prima della beatificazione, di sera, siamo stati ad una veglia di preghiera con i giovani nel quartiere Brancaccio, precisamente in un’area confiscata alla mafia dove sarà costruito il nuovo centro “Padre nostro” voluto dal parroco martire.
Mi ha colpito vedere quest’area pienissima di giovani. Tutto il quartiere brulicava di pellegrini. È stata una breve celebrazione molto intensa preceduta da un elenco lunghissimo di vittime della mafia, la cui lettura ha richiesto oltre venti minuti. L’indomani c’è stata la celebrazione vera e propria, al Foro Italico, una zona immensa che costeggia il lungomare di Palermo. Eravamo in 80.000 (circa 850 celebranti tra Diaconi, Presbiteri e Vescovi). Vicino a me c’era un frate, diacono, prossimo all’ordinazione sacerdotale, a cui colavano grandi lacrime. Anch’io ho cominciato a piangere di gioia come mai mi è successo, fino al culmine che è stato il momento in cui è stata scoperta la gigantografia del Beato. Lo sfondo della foto azzurro come il cielo ha dato l’impressione che don Pino si ergesse nell’azzurro del cielo con la cornice come aureola. In quel momento c’è stata un’esplosione di lode a Dio.
Quando ho saputo della morte di don Pino, ho ripensato ai giorni trascorsi insieme. Sapevo che fosse impegnato in una parrocchia difficile e che come tanti altri parroci si trovasse in prima linea, ma non pensavo che potesse diventare così scomodo da essere ucciso. Perché il mio ricordo è quello di una persona mite, timida, schiva, molto dimessa, essenziale in tutto, non certo di una figura eccezionale per carisma o per doti organizzative. La sua forza era però la capacità di tessere relazioni, di costruire rapporti, di saper coinvolgere, di essere fedele alla distanza. Infatti, una sua frase molto celebre dice più o meno così: «Se ognuno fa qualcosa, allora insieme possiamo fare molto». Perché in fondo si rendeva conto che una comunità non cambia per il leader di turno (anche i mafiosi sono leader a loro modo), ma se condivide un progetto comune.
E poi un’altra cosa che mi ha colpito è che don Pino era primariamente un prete ed è morto perché ha mostrato che la mafia è incompatibile con il cristianesimo. Lo ha detto a chiare lettere, senza lasciare ombre. Una delle prime cose che ha fatto arrivando a Brancaccio è stata rifiutare i soldi dei mafiosi per la festa patronale. Don Pino ha incarnato il ministero pastorale come servizio gratuito alla comunità di Brancaccio. La difficoltà di fare apostolato in certi ambienti si capisce solo se ci si vive, o almeno solo attraverso i contatti e i racconti delle persone. •
Rosario Chinnici