Si affida il paziente al medico curante per ulteriori eventuali approfondimenti, e naturalmente alla famiglia. Significa che i sanitari del posto di soccorso considerano la condizione clinica stabile, ma potenzialmente instabile e, forse, foriera di complicanze lontane o prossime. Talvolta, ad esempio, per fortuna di rado, sintomi cardiaci, soprattutto se atipici, non rivelano al filtro la loro natura, nonostante tutte le procedure siano messe in campo nel modo migliore: troponina inziale e ripetuta, ecocardio (non sempre), ecg, consulto cardiologico, osservazione breve, esami di routine; ma poi, all’improvviso, magari dieci giorni dopo, il paziente così filtrato, e adeguatamente indagato, muore di morte improvvisa, mentre si trova alla guida dell’auto, per un problema proprio cardiologico.
È successo, e allora scattano querele, indagini, e quant’altro. Ma di colpevoli non ce ne sono, se le procedure d’ingaggio sono state corrette e hanno rispettato le più aggiornate linee guida. O meglio, un colpevole ci sarebbe, ma si tratta di un’entità astratta. Altre volte, casi meno gravi, ma comunque complessi, attivano accessi ripetuti alle strutture sanitarie, come chiedendo aiuto; ma, dopo un minimo o massimo di studio il più possibile rapido, vengono rispediti a domicilio, con un palleggio a ping pong che mette a disagio famiglie, medici, ambulanze (a volte) e quant’altro.
Un tempo casi simili, come il precedente esempio cardiologico, venivano aggregati ai reparti e osservati a lungo, anche per settimane, finché non si giungeva alla conclusione di aver fatto tutto il possibile per giungere a una diagnosi. Ma allora si era in tre, ora si è in due. Analoghe considerazioni per le chirurgie veloci e superveloci che, non raramente, lasciano esiti lunghi e super-lenti a guarire. Un tempo per un’ernia si stava dieci giorni in ospedale.
Troppo, forse, ma ora non è poco? Patologie croniche si avviano a diventare sempre più croniche, patologie terminali diventano sempre più durature. Gli ospedali, rimediate le emergenze indifferibili, rispediscono i pazienti a domicilio, lasciandoli di fatto soli, magari con i loro familiari, che però si trovano anch’essi sempre più soli assieme al congiunto malato grave; generandosi situazioni assai diverse e con assai diverso pesante impatto, perché non tutte le famiglie hanno la stessa resistenza, non tutte le stesse capacità operative, non tutte le stesse risorse (sperequazione non de jure, ma de facto). In passato, il terzo pagante dell’assistenza sanitaria era rappresentato dalle mutue, e vi regnava in qualche modo l’idea del mutuo soccorso (paghiamo tutti una parte, e quello che non serve a me può servire a te, e viceversa).
Oggi il terzo pagante è costituito dalla pubblica amministrazione, o dalle assicurazioni, e qui, nonostante ogni buon proposito, non v’è più – stante lo scopo di lucro delle seconde, e la lontananza amministrativa della prima –, quel “mutualismo” che rappresentava il terzo piede forte dell’assistenza sanitaria – con tutti i limiti, per carità! Il terzo pagante attuale è evanescente, interessato e/o impotente. La tecnologia costa, il personale costa, l’amministrazione costa, le richieste sono aumentate in modo logaritmico, le risorse non sono aumentabili a piacere.
Allora il terzo pagante si defila, alle persone si garantisce un’assistenza parcellare, discontinua, insufficiente, fondamentalmente un’assistenza che lascia soli di fronte alle esigenze più pesanti, nonostante qualche ospizio (hospice è più “in”-telligente) per terminali, nonostante le ancora fantomatiche case della salute, nonostante la medicina del territorio, nonostante la medicina di base – che non si sa più che cos’è, chiamata a risolvere, ma con metodi impotenti, condizioni sempre più vaste e indominabili –, nonostante l’ADI, nonostante tutto. Il bello di tutto questo è che il terzo pagante ha ragione nell’esibire le sue ragioni di difficoltà.
Allora? Pensa che ti pensa, mi è venuta alla mente la parabola del buon samaritano, ma non in senso pietistico o evangelicamente caritatevole o caritatevolmente evangelico. La ripropongo da Luca 10, e poi mi spiego. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.” Da un po’ di tempo mi fa impressione un fatto: il caritatevole (issimo) samaritano, in realtà, pare impegnarsi poco, carica il malcapitato, gli fornisce le prime cure immediate, ma poi lo lascia, non solo però, nella locanda, anticipa un po’ di somma, promettendo di saldare tutto il conto dell’assistenza al suo ritorno, dopo il giro d’affari.
Agisce per interposta persona, e servendosi del denaro: cosa che potrebbe fare un po’ arricciare il naso ai predicatori – magari poco realizzatori – di una carità a tutto servizio e a tutto campo. Ma se guardiamo la parabola anche sotto il profilo di un suo “consiglio” per l’organizzazione pratica ed efficiente del bene comune – e quanto il Vangelo potrebbe essere fonte di ispirazione anche per questo! –, si vede come Gesù ha centrato in pieno il problema dell’assistenza, individuandone proprio i tre protagonisti, e i tre pilastri. Trasferita all’oggi, il malcapitato è il malato e la famiglia, l’albergatore è l’erogatore concreto (medici, ospedali, servizi) dell’assistenza, il samaritano il terzo pagante.
Qualsiasi relazione semplicemente duale finisce per non funzionare: paziente e famiglia, da una parte, e ospedale e medici e servizi dall’altra: ne deriva quello che lamentiamo quando ci lagniamo che l’assistenza si va dissolvendo. Così come non funzionano le altre relazioni duali possibili (utente-terzo pagante, senza erogatori, o, purtroppo sempre più vera, quella che privilegia terzo pagante ed erogatore, lasciando sprovvisto l’utente). Che proporre? Non è facile. Se le risorse non ci sono, non si possono fare i conti senza l’oste (è proprio il caso di dire). Ma a volte è una questione di priorità: chi viene prima? Rispondendo sapientemente a questa domanda, si potrebero riaprire tante riflessioni e cercare tante nuove e vecchie vie di intervento più efficaci e, senz’altro, più “prossime”. Forse, addirittura, meno costose. •
Giovanni Zamponi