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Schermi senza sapienza

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uforobot“Dato che il non sapere può essere combattuto solo con l’aiuto del sapere, tutte le organizzazioni, come tutti i sistemi cognitivi, si orientano a ciò che hanno già prodotto. Una Organizzazione non può mai sapere che cosa pensa o vuole fino a che non vede ciò che fa”.

Niklas Luhmann, Organizzazione e Decisione, Bruno Mondadori, Milano, 2005

Astrid Lindgren era l’autrice di Pippi Calzelunghe. Ci somigliava molto quella ragazzina svedese. A noi, ragazzini di campagna come lei, non ci era estraneo nulla del suo mondo: animali, giocattoli rimediati, tanta spensieratezza vera (quella del piacere di esserci senza dimostrare per forza di eccellere in qualcosa). Questo è un punto delicato perché oggi molti genitori sembrano costretti ad assegnare ai propri figli un compito derivante dalla consapevolezza di non averlo potuto assolvere durante la propria giovinezza. Oppure, caso ancora più delicato, nella impossibilità di cogliere nella socializzazione delle giovani generazioni, una traccia della propria, essendo dunque costretti ad abitare un mondo nuovo senza nulla condurvi del mondo di un tempo.

Oggi i rapporti genitori-figli contemplano una sorta di appalto inconscio reciproco che il ragazzo deve gestire nel proprio rapporto con l’ambiente familiare ed educativo ed il genitore nella propria missione formativa. Un tempo i rapporti tra le generazioni erano ispirate dalla saggezza; oggi è l’esperto che si interpone tra i protagonisti delle vicende umane facendo valere la sua qualifica di “delegato ad essere e vivere per altri” (in anticipo o per risarcimento) una vita spesso svuotata delle sue simboliche, impoverita nella sua tensione desiderante e vilipesa come attimo fuggente opportunamente dedicato al Bene. La percezione che da ragazzi avevamo di noi era facilmente intercettata dalla scuola e modulata dalla tenuta stagna dei rapporti di parentela e di vicinato. Ma già la TV dei ragazzi (in bianco e nero ovviamente), insinuava degli elementi di disturbo ad iniziare dalla contesa ripetuta per i posti migliori davanti alla TV, in quelle sale da pranzo in cui i grandi camini cedevano lo scettro di luogo della cultura e della memoria.

Dopo l’arrivo dei cartoni animati giapponesi si è capito che la fìction di qualità non poteva più competere con i cartoni nella fascia pomeridiana: perché spendere e impegnarsi a produrre qualità, quando per fare la Tv dei ragazzi bastava tradurre prodotti a basso costo? E così, decenni di latitanza dell’Europa dal mercato della fìction giovanile, ci ha preparato a un’altra invasione, quella dei Disney Channel e dei suoi tanti derivati.

La massiccia produzione di materiale a bassa qualità si coniuga nel mondo giovanile, con la concomitante esplosione del consumo di cibo spazzatura e la crescita esponenziale dei cosiddetti “non-luoghi”. Il tempo dei media viene costruito spazialmente in una città che diviene deserto di relazioni perché l’esistenza individuale – che perde un centro di radicamento dopo la riduzione della Religione a “funzione culturale”- viene giocata in uno spazio svuotato di simboli e pieno di trasparenze. Probabilmente alla base di questa forte programmazione di materiale diseducativo ci sono degli equivoci dovuti alla superficialità del modo in cui diversi esperti svolgono il loro lavoro, a partire dalla trascuratezza, non solo delle nozioni di media-education, ma anche della funzione che la comunicazione umana ha assunto come ambiente del sistema sociale (o Società-Mondiale). Appare così scontato ed evidente che i cartoni animati, per il solo fatto di essere tali e rivolgendosi ad un pubblico infantile, non necessitano di alcuna mediazione? Se la “mediazione culturale” è un dovere educativo ormai messo in latenza perché gli adulti (genitori) sono costretti ad affidare ad altri la cura interpretativa delle comunicazioni nelle quali sono immersi i propri figli, quale potrà essere il “rapporto di comunicazione” familiare migliore per i piccoli?

Queste ed altre ragioni hanno così fatto dimenticare ai responsabili dei programmi Tv che in Giappone i manga ad esempio e i cartoni animati vengono concepiti anche per un pubblico adulto – mentre da noi sono destinati solo ai bambini – con alcune sparute serie a disegni che restano destinate a una fruizione infantile. Altre mirano a un target di età decisamente più elevata e, per questa ragione, vengono mandate in onda durante la notte. In Italia invece, la scellerata equazione cartoni = bambini ha portato a collocare in fascia pomeridiana anche le serie più violente. Un altro elemento problematico consiste nel semplicistico accoglimento di un prodotto narrativo che è espressione di una cultura profondamente diversa dalla nostra, di una cultura che ha elaborato il tema dello scontro violento in modo differente rispetto a quella occidentale, investendo le arti marziali di una componente filosofico-antropologica che non appartiene a noi europei e che determina una diversa ricezione della forza rappresentata. Cosa dicono gli esperti di queste trasformazioni?

Poco o nulla di interessante perché quelle immagini disegnate, per giunta in modo così apparentemente grossolano, sono talmente distanti dal vero fotografico e cinematografico da non destare preoccupazioni: anche un bambino si accorgerebbe che è finzione, e la finzione non è né educativa, né diseducativa, perché semplicemente è finzione. Non si tratta di un problema di poco conto dato che sulla “finzione di realtà”, cioè sul fatto che il mondo finto deve essere verosimile e che il verosimile deve restare separato dal vero, si costruisce il senso di realtà delle generazioni, in specie di quelle più giovani, le quali hanno una realtà mediatica enormemente dilatata, fatta di sole risposte (a domande che i piccoli non possono porre e che gli adulti non gli insegnano a porre). Così si è pensato all’epoca di “Actarus” e così si pensa ancora nell’era di Internet.

La globalizzazione dei media iniziava con le insalate di cibernetica e le “Alabarde spaziali!!!”. Sappiamo poi che la TV non recupera dal passato solo la spettacolarità dei circenses, ma anche quella mortificante dei fenomeni da baraccone riproponendo, proprio nell’età dei diritti e della costante sottolineatura costituzionale della “dignità della Persona”, il gusto morboso per il deforme e la sua derelizione. Si assiste così all’esibizione di recordman dalle vocazioni più disparate (dai mangiatori di polpette ai distruttori di angurie), con dei programmi che possono sottoporre alla gogna delle telecamere persone il cui unico record è quello della deformità fisica, nel tentativo di riscattare – in termini di spettacolarizzazione – la durezza di una difficoltà quotidiana: si va dall’uomo più piccolo del mondo a quello più grande; dal ragazzo che, affetto da una rara malattia, riesce ad allungare la sua pelle in modo spaventoso, all’uomo che traina con i denti un Tir.

Un Barnum quotidiano che la televisione propone ai grandi e soprattutto ai piccini. Si tratta di mostri, non perché la deformità sia ancor oggi da omologare alla mostruosità (magari per la difesa culturale di una norma), ma perché gli autori del programma prevedono per loro solo il grottesco di una esibizione capace di mostrare facilmente il lato mortificante della ribalta sperata. Certo, la televisione ripaga in denaro le umiliazioni che infligge a questi protagonisti, ma non si cura del danno procurato alla società nel suo complesso. I media si possono conformare ad una idea di Saggezza? In una società-mondo come la nostra si sostiene che l’informazione valga più della cultura proprio perché i media costruiscono un circuito della fiction che toglie di mezzo la sapienza: del cuore, del dolore o della tradizione. Però un esperto ci verrà a soccorrere (forse). •

Rossano Buccioni

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