Il mover si qualifica per la rottura molto netta operata nei confronti di identità stabilizzate costruite su base razziale e territoriale, oppure in riferimento allo stato nazionale, o anche su base religiosa. Nel mondo del mover, infatti, la comunità etnica, lo stato, la religione, sono ordinamenti totalmente disattivati nel loro potere di dar forma a identità umane capaci di giocare un ruolo significativo nello scenario contemporaneo. Quello del mover è un mondo senza popoli, senza stati nazionali, vuoto di Dio e degli Dei. Del Sacro, dell’esperienza religiosa, permane una vaga traccia nella dimensione del «dono» (198), definito come «luogo aperto in cui Dio può fare la sua comparsa» (198), che, però, a una considerazione più attenta, appare come l’estremo atto di attenzione che l’Io tributa a sé nel caso in cui dovesse trovarsi nella triste condizione dell’altro bisognoso. Il mover pensa se stesso come un «wreckingball » (palla da demolizione) delle identità ancorate al passato, e si definisce, inoltre, come «il barbaro alle porte della propria stessa civiltà» (164). Si tratta, in sostanza, di una nuova forma di soggettività che si pone come l’artefice di una «distruzione creatrice» (158) che deve mutare radicalmente la fisionomia culturale del mondo occidentale e non solo di esso. Il mover riconosce il proprio nemico essenziale nel Welfare State, identificato come un «corpo obeso» (153) che produce figure inconsistenti. Nel bestiario inquietante posto in essere dal Welfare State vengono infatti collocate le figure dell’uomo «assistito e protetto» (102), del marginale risentito che vive per colpevolizzare gli altri del proprio fallimento, del garantito che non vuole correre nessun rischio, e giustifica il proprio desiderio di comoda sicurezza nascondendosi dietro la mistica della regola e delle meccaniche procedurali. Occorre aggiungere, però, che ciò che maggiormente innervosisce il mover non sono le figure passive del Welfare State, come gli eterni assistiti o gli eterni garantiti, ma le sue figure più attive. Tra queste c’è il moralista-giustizialista che guarda il mondo nell’orizzonte di un «eccesso di purezza» (33) e di una «mania della legge» (34) che, nel tentativo di rendere gli uomini «perfetti, impeccabili, retti, trasparenti» (34), li riduce a entità senza vita. Il mover infierisce, inoltre, sui giornalisti della carta stampata e dell’universo televisivo, brutalmente liquidati come residuati di un «modo antico di percepire il mondo» (27).
Con il medesimo piglio liquidatorio vengono affrontati anche i gestori dell’apparato scolastico, descritto come regno del livellamento in basso, di una malsana «equalizzazione» (130) che mortifica il talento, anestetizza la diversità dei ragazzi/e, portandoli, nel migliore dei casi, a inseguire una laurea incorniciata vissuta come il «marchio di riconoscimento» (130) di coloro che pensano di essere entrati nel «recinto degli intelligenti» (130). Per questo, la scuola, con la sua «noiosissima musica standard» (132), in cui c’è «poco di tutto» (133), viene classificata come una istituzione insipida, capace unicamente di distribuire diplomi che non abilitano a nulla. Il mover, però, guarda con sospetto non soltanto il Welfare State, accreditato come la fabbrica avvelenata di un improponibile bestiario umano fatto di scrocconi e di profeti del buonismo interessato, di una pletora di indignati e di psicotici in perenne autoesplorazione, di vecchi marpioni e di politici cinici, che, in sinergia, sacrificano senza scrupoli il futuro delle giovani generazioni al proprio interesse e alla perpetuazione del proprio potere. La diffidenza del mover si dirige infatti verso l’idea stessa di stato come si è venuto configurando negli ultimi quattro secoli, identificato come un «padrone arrogante» (112) che funziona soltanto come forza di inquadramento coattivo della vita degli individui.
Tolte di mezzo l’appartenenza etnica, l’esperienza religiosa, lo stato, tollerabile soltanto in una figura residuale di «stato minimo», il mover su quali basi intende costruire la sua identità? Nella propria configurazione fa riferimento a quattro elementi. In primo luogo, alla singolarità della propria individualità. In secondo luogo, alle comunità elettive o di scopo alle quali sceglie di appartenere, poi, alla tecnica e, ultimo ma non ultimo, al mercato. Nel libro di Silenzi soffia il vento dell’anarcocapitalismo, cioè di una postura mentale e esistenziale per la quale il primum movens della realtà è il singolo individuo nella singolare originalità della sua esistenza, il quale si lega a comunità affettive liberamente scelte, o a gruppi organizzati di interesse e di scopo. La sua «casa» (111), quindi, è la libertà, e ciò che essa sceglie, in termini costantemente revocabili, a livello di affetti, di relazioni, di pratiche. Questa tipologia umana, inoltre, si presenta come una sorta di mutante, titolare di una identità non stabilizzata, portatore di una verità mobile, che è il prodotto della connessione tra una vita personale sottoposta a continue variazioni e un mondo anch’esso sottoposto a rapide accelerazioni e a incessanti mutazioni. Non sorprende, quindi, che il mover designi se stesso attraverso le metafore dello «squalo» (69), del «surfer» (65), del «Maglev» (72), cioè il treno cinese ad alta velocità, del «barbaro» (164), e, infine, dell’uomo che ha eletto a propria dimora la «frontiera» (201). L’insieme di queste metafore sta a indicare l’alto tasso di mobilità, di esposizione al nuovo, di capacità di accelerazione nel mutamento richiesti a individui che nella tecnica e negli ondeggiamenti del mercato scoprono una sorta di seconda natura che costituisce la loro dimora.
Il mondo del mover è infatti il mondo del computer, dell’iPad, dello smartphone, della piattaforma Bloomberg, un sistema di oggetti tecnologici che diventa il luogo privilegiato di conoscenza e di interpretazione del mondo. Il mondo diviene, così, l’immagine del mondo, un genere di realtà che si manifesta come flusso continuo di immagini, di dati, di eventi, di interpretazioni, un’entità pluristratificata, proteiforme, che non possiede un centro, né confini definiti, né punti di riferimento stabili. È un mondo fatto di equilibri puntuati, di fluttuazioni continue, che assomiglia all’«elettrocardiogramma di un cuore in fibrillazione » (93), o all’«andamento del mercato in un giorno ad altissima volatilità» (93). Il soggetto che si espone all’interazione con questo tipo di mondo vive una condizione di «rivoluzione permanente» (187), cioè una postura mentale ed esistenziale che lo costringe alla distruzione di ogni complessata deferenza verso il passato, e di ogni atteggiamento ispirato al fissismo e alla stabilizzazione della vita umana. Per il mover «l’unico riparo è l’innovazione continua. Inventare, rinnovare, creare. Non c’è altra via per resistere» (93). Egli deve sperimentare e innovare continuamente per essere all’altezza di un presente che, per esistere, deve avere maggiori affinità con il futuro piuttosto che con il passato. Scrive, in tal senso, Silenzi: «mi muovo verso qualcosa e non a partire da qualcosa. La causa del mio movimento la rincorro di continuo. Sono il piede di Louise che schiaccia sul gas dopo che Thelma le dice che non vuole tornare indietro. Non c’è un indietro. C’è solo avanti, c’è solo l’accelerazione. Qualsiasi cosa ci sia ad aspettarci lì davanti. Si può solo saltare» (76).
Oltre alla tecnica, il luogo in cui il mover riscontra nella maniera più chiara questa dinamica di accelerazione e di continua mutazione è il mercato. Esso viene identificato come «la rete che connette il mondo» (21), un processo in continua oscillazione che non ha nessuno scopo particolare, ma consente «agli individui di realizzare i loro scopi» (195), a patto che essi sappiano interagire con questo «ordine del mondo» (192) che è il nuovo «ecosistema » (190) sempre più complesso, in continua formazione, che dai suoi abitanti esige esposizione al rischio, e capacità sempre più elevate di sperimentazione, di autocorrezione. Il mercato si accredita in tal modo come «l’unica rivoluzione permanente» (187). Esso è infatti il sostituto più accreditato dei vecchi sogni dell’ideologia politica nel suo porsi quale via che porta alla creazione non più di un «ordine nuovo», ma di un ordine in continua oscillazione, che è il prodotto del «muoversi continuo degli individui nel mondo» (187). Nel libro di Silenzi, accanto al vento dell’anarcocapitalismo, si avverte a volte anche il soffio di un altro vento, molto più potente e squassante, il vento di Nietzsche, di Pierre Teilhard de Chardin, di Julian Huxley, pensatori che non identificano l’uomo né come termine stabilizzato dell’evoluzione, né come un fine, ma, piuttosto, come «il mezzo del futuro» (22), un ente in divenire che per poter vivere deve transitare verso qualcosa di «ultra-umano». E questo è il problema enorme con il quale una parte del pensiero attuale sta iniziando a fare i conti.
Al di là del giudizio sulle coordinate culturali che danno forma alle idee esposte da Silenzi in Mover. Odissea contemporanea, occorre dire che il suo libro costringe a una seria e attenta riflessione. È infatti il frutto dell’esperienza da lui vissuta sulle frontiere più avanzate dei mercati finanziari. Sulla base di ciò che ha visto in presa diretta del mercato mondiale nei grafici oscillanti osservati per dodici o tredici ore al giorno su tre schermi di computer, egli ha creato una suggestiva narrazione filosoficoletteraria che racconta gli scenari del presente e del futuro del mondo.
Si tratta, indubbiamente, di una narrazione molto schierata, dal tono assertivo e estremamente deciso, che, in nome del primato della «frontiera», lascia in ombra le «periferie dell’esistenza». Al suo autore va comunque riconosciuto, però, il merito non trascurabile di porsi come una voce anomala nel panorama culturale italiano che intende gettare un sasso nelle acque stagnanti di letture scontate della realtà, che sono il prodotto del pigro «sonno dogmatico» in cui versa il pensiero di molti. •
G. Filippo Giustozzi
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