I molti volti della povertà

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numero 14Si stava meglio quando si stava peggio. A questo fa pensare la foto di copertina. Le centomila lire di una volta, non più in circolazione, si trasformano in… povertà. Nel 1939 cantava Gilberto Mazzi “Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovar tutta la felicità!”. Oggi non servono più neppure mille euro al mese per “trovar tutta la felicità”. Perché la povertà non è solo questione economica, ma frutto della disuguaglianza e della mancanza di equità.

Zygmunt Bauman in Danni collaterali infatti afferma: «L’accrescersi della disuguaglianza è quasi sempre visto come un semplice problema economico. Ci si limita a soffermarsi sulle minacce all’ordine pubblico che essa può rappresentare, trascurando i rischi che comporta per gli elementi fondamentali della salute della società, la qualità della vita quotidiana, il grado di partecipazione politica dei cittadini e la solidità dei rapporti che li uniscono. L’unico parametro che viene preso a misura del benessere è il tasso medio della ricchezza dei cittadini e non il livello di disuguaglianza nella distribuzione di quella ricchezza».

«Stiamo assistendo ad una situazione in cui le diseguaglianze stanno crescendo e si sta creando una classe di nuovi poveri: – ha affermato Artur Benedyktowiz, responsabile delle politiche sociali di Caritas Europa, commentando l’ultimo Rapporto Caritas sulla povertà e l’inclusione sociale in Italia, dal titolo False partenze – il 20% dei più ricchi d’Europa guadagna cinque volte quello che percepisce il 20% dei cittadini più poveri». La povertà aumenta con un’andatura impressionante di anno in anno. Parallelamente, con la stessa velocità, si amplificano le diseguaglianze e la crisi sociale non accenna a diminuire, anzi, mostra un preoccupante inasprimento.

Chi sono i poveri? Oggi, a soffrire maggiormente sono i giovani, le donne e le famiglie numerose, soprattutto se vivono nelle regioni meridionali, il cui distacco dal Nord aumenta anno dopo anno. Questo quadro fortemente negativo è reso ulteriormente grave da altri elementi che in Italia pesano più che altrove: un “ascensore sociale” bloccato (l’estrema difficoltà di migliorare le proprie condizioni di partenza); deboli politiche di sostegno familiare; una scarsa attenzione al problema della povertà, lasciata affrontare dal “terzo settore”, da operatori sociali con particolari sensibilità, dalle parrocchie, che possono contare su risorse economiche precarie.

Si ha l’impressione che non esista un quadro coordinato per affrontare l’emergenza povertà, al cui interno non si trova più soltanto l’anziano povero o il senzatetto (come siamo stati abituati a pensare), ma un numero elevato e crescente di famiglie con bambini, proprio perché non adeguatamente sostenute da quei servizi pubblici che la crisi ha contribuito a ridurre ulteriormente. Nella parte del Rapporto Caritas che si occupa specificatamente dell’Italia, si evidenziano le povertà così come si sono presentate nel corso del 2013 agli 814 centri di ascolto di 128 diocesi (il 58,2% del totale).

A livello complessivo, si conferma una quota maggioritaria di stranieri (61,8%) rispetto agli italiani (38,2%), più forte al Sud, arrivando circa al 60%. Si tratta in prevalenza di donne (54%), di coniugati (circa il 50%), di disoccupati (61,3%) e con domicilio (81,6%): sono i connotati di una povertà che investe sempre di più il cittadino “normale”, che ha una famiglia, un alloggio, che aveva un lavoro, che vive all’interno della società, non ai suoi margini, e che ha il volto femminile più di quello maschile. Riguardo ai bisogni evidenziati, il principale è stato quello della povertà economica, quasi il 60% dei casi, seguito dai problemi di lavoro (47,3%) e dai problemi abitativi (16%).

Un dato assai significativo è che tra gli italiani la povertà economica è più alta che tra gli stranieri, il 64% contro il 55%, mentre la mancanza di lavoro è più presente tra gli stranieri (49%) che tra gli italiani (43%). Anche i problemi familiari sono diffusi più tra gli italiani (13%) che tra gli stranieri (5,7%), mentre il contrario è per il disagio abitativo (17,2% degli stranieri contro il 13% degli italiani). Verrebbe da pensare che l’inasprimento fiscale sulle fasce lavoratrici italiane sia una delle cause dell’impoverimento degli italiani, riducendone la capacità di risparmio e di potere d’acquisto, mentre la crisi occupazionale colpisce i settori più deboli come quelli in cui si trovano a operare gli stranieri.

Quanto alle richieste, prevalgono quelle di beni e servizi materiali (34%), seguito dall’attivazione e dal coinvolgimento di soggetti terzi (26,8%) e da informazioni sui servizi socio-assistenziali sul territorio (10,3%). Minoritaria, circa il 10%, è la richiesta di un aiuto economico diretto, segno, anche questo, che il modello di welfare territoriale è quello che viene percepito come maggiore garante di distribuzione dei servizi principali, quelli che realizzano i più elementari “diritti di cittadinanza”.

Questa visione istituzionale, che ha nel territorio il suo fulcro, è sicuramente una nota positiva, in quanto manifesta ancora fiducia nelle reti istituzionali, ma che va riformata e adeguata alle nuove povertà emergenti. •

Nicola Del Gobbo

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