Sant’Angelo in Montespino

Sant’Angelo in Montespino

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Nel quasi tramonto di una primavera soleggiata, guardando il sole accucciarsi dietro ai monti, è possibile vederlo. O immaginarlo.

Il Guerin Meschino è là.

Là, che risale la montagna della Sibilla, sino all’antro della Veggente. Per conoscere la verità di sé…

Sono racconti sentiti e risentiti da vecchi padri che li lasciarono in eredità ad ormai vecchi figli cosicché la memoria non inaridisse.

Il luogo d’osservazione è unico e stupendo. E’ il pianoro che accoglie la pieve di Sant’Angelo in Montespino. Un cucuzzolo tra gli altri. Il più alto degli altri.

Vista da Rubbiano, la pieve ha il campanile tozzo che spicca tra il verde della pineta. Come delicatamente posatovi dall’alto.

Siamo a Montefortino, strada che conduce a Montemonaco.

Sabato sette maggio una comunità – la più parte proveniente dalle frazioni di Cerretana ma anche da Ripavecchia e dal paese in basso – s’è riunita nei pressi del Camping dirigendosi poi verso la minuscola chiesa. Di notte, sotto la luna, salmodiando. Un’ascesa nel giorno dell’Ascensione. Una festa popolare – continuata anche il giorno successivo: domenica otto – come si faceva un tempo, quando in questi due giorni si allestiva la grande fiera con cacio e carne di agnello, abbigliamento in lana e manufatti in terracotta. Il Municipio mandava tre armati per disciplinare l’evento. Gli Statuti comunali – ricorda il prof. Onorato Diamanti – fissavano due feste per iscritto: questa di Sant’Angelo e quella del sei novembre a San Leonardo: il monastero benedettino, poi eremo francescano ricostruito dall’indimenticato padre Pietro.

Domenica, la campana ha suonato a lungo. Rimbalzando la sua voce di colle in colle, richiamando fedeli e curiosi per la santa messa, la processione e la benedizione delle campagne.

Il ranocchio non s’è visto nella chiesa. La cripta ne era priva…

Quella del ranocchio è una leggenda affascinante. Forse l’animale è un’anima in pena, forse è sorte di  metempsicosi. Forse, è strano protettore dei luoghi: ranocchio di giorno per sfuggire gli umani, uomo di notte per preservare il tempietto. Chissà. Eppure c’è chi giura di averlo visto, il ranocchio. Addirittura di averne visti due, dai colori diversi, abitare la parte sottostante la pieve. Diamanti ne ha le prove: li ha fotografati.

Com’è bella l’altra storia. Quella delle colonne che reggono la struttura interna. Ognuna con un potere curativo. C’era quella contro il mal di testa e quella contro il mal di ossa, eppoi, eppoi… Colonne quasi sempre umide, cui i fedeli s’avvicinavano con ogni sorta di stoffa: fazzoletto o panno. Lo strusciavano sul mattone, incameravano quella lattugggine bianca e lo posizionavano poi sulla schiena o sulla faccia. Senza dimenticare la recita del Pater Noster per l’intera durata di una santa messa. Quasi una preghiera divenuta respiro, come nel noto viaggio del pellegrino russo.

Che i dolori passassero non sapremmo dire, che un certo sollievo si trovasse qualche vecchia del luogo è pronta a giurarlo. Cura omeopatica anzitempo?

Il documento più antico riguardante Sant’Angelo in Montespino risale al 977. E questo è certo. Come certo è che la pieve fosse il punto più avanzato del vescovo fermano in terra farfense.

Sant’Angelo in Montespino
Sant’Angelo in Montespino

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