Una persona trapiantata sulla riviera da un paese montano e terremotato.
Sta guardando il mare di un azzurro purissimo. È mattino, non presto. Sente freddo e rinsacca di continuo le spalle nella giacca da cacciatore. Anche se il clima è più che mite, il suo freddo è ancestrale. Non è fisico. Viene da oltre. Non prende solo ossa mani fronte. Prende dentro. Ha preso il cuore.
Lo chiameremo Peppe. Uno dei tanti Peppe che, a 80 e più anni, da Ussita, Montefortino, Amandola, Visso, s’è trovato di colpo a vivere lungo la costa: da Civitanova Marche a San Benedetto del Tronto.
Lui che viene dai monti, che calza scarponi anche d’estate, ora staziona vicino alla spiaggia.
Al parroco, ai sacerdoti delle parrocchie distrutte dal terremoto, che vengono a trovare il proprio «gregge» sperso, per rincuorarlo e dare barlumi di speranza, ha confidato una cosa sola: di sentire un gran freddo. Ha detto loro che la più grande mancanza è il focolare.
Non è abituato a lamentarsi. Il volto è pieno di rughe, segno di tante storie. Conosce la vita e le sue contorsioni.
«Si sta bene in albergo», ripete. «Anche nel camping. Sono gentili, ci danno i pasti, chiedono come va». Ma è una non vita.
La fiamma del focolare non c’è. Non ci sono i ceppi spaccati nel retro e ammonticchiati con scienza, né l’attizzatoio. E la mente torna là dove vuole tornare.
«In alcune antiche case – roba da benestanti – le pareti del focolare venivano fuori, erano sporgenti, e gli uomini potevano entrarci dentro, con addirittura i sedili di pietra. Ora, sulla piana, i caminetti, se li costruiscono, li fanno piccoli, da arredamento. E poi… i termosifoni: calore eguale dappertutto. Vuoi mettere?»
Peppe vuole… mettere
Il freddo gli sale dal profondo del suo essere.
Il tempo del focolare non è quello della fiction televisiva, confezionata per colpire, stupire, distrarre, plasmare, diseducare anche. Il tempo del focolare era quello del racconto, e quando il racconto non c’è più, perché i nipoti sono cresciuti e non ascoltano rapiti da tablet e smartphone, il tempo del focolare diventa quello della memoria. Del ricordo. Del vissuto. Dell’esperienza.
Non credo Peppe abbia mai studiato i miti greci. Non so se gli abbiano parlato mai di Anteo. Se sappia che Ercole stava perdendo una delle sue sfide faticose, incapace a sollevare il gigante libico. Non ce la faceva, Ercole a batterlo. Non riusciva perché Anteo era piantato a terra. Radicato. Forse in qualche spelonca del vicino Atlante aveva un fuoco e un focolare che l’aveva forgiato e lo riscaldava. Il focolare era uno scrigno di saperi. Quasi un esoterismo del buon fuoco. I fumisti si tramandavano i segreti, di generazione in generazione.
Il focolare è anche la piccola ara. Ara, altare domestico.
I Romani vi tenevano accanto, in un armadio, i dei protettori della famiglia.
Peppe è un vecchio alto, statuario. Autorevole. Di quella anteriorità/autorità su cui s’è fondata la nostra civiltà. Non perché l’adulto, per dirla con Benasayag e Schmit, «sia dotato di una qualità personale particolare, ma perché incarna la possibilità di trasmissione della cultura». Cioè: «Se questo è stato, se ciò che viviamo è, sarà anche nel futuro». Magari Peppe questo non lo sa. Ma lo rappresenta. Ed oggi ha freddo. •