Le parole feriscono come coltelli

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Spontaneità e disponibilità all’ascolto con chi è malato

Quante notizie, atteggiamenti, frasi, irritano o addirittura feriscono i malati di tumore? Quanti ancora i pregiudizi che stigmatizzano la malattia e rendono ancor più difficile e pieno di ostacoli il già duro cammino verso la guarigione o la cronicizzazione? Si potrebbe obiettare che non è facile saper stare accanto e sostenere una persona che si trova, all’improvviso, a dover affrontare il cancro! Solo la parola incute un timore cieco quando non è accompagnato da odiosa scaramanzia.
È anche vero che il malato diventa spesso insofferente, facilmente irritabile, intollerante, forse eccessivamente sensibile e permaloso e che, quindi, anche i parenti e gli amici devono fare i conti con la mutata condizione cui adeguarsi, per poter vivere accanto al malato e condividere le emozioni e le risorse necessarie ad affrontare la crisi oncologica.
L’esperienza maturata sul campo suggerisce in primo luogo di evitare atteggiamenti superficiali che hanno l’effetto, spesso inconsapevole ma non per questo meno intollerabile, di banalizzare la malattia e di allontanare il dramma quasi a volerlo rifiutare. Frasi come: «Forza e coraggio…, con le cure che ci sono oggi…, ma non ti preoccupare dei capelli sono il male minore…» provocano reazioni, non sempre esplicitate, di insofferente rabbia e delusione verso chi le ha pronunciate accompagnate da un retro pensiero “ma cosa ne puoi sapere tu, mica hai il cancro!”.
Fermarsi un momento per dedicarsi all’ascolto di chi sta vivendo un momento difficile della propria vita, spesso, è molto più che tante, insignificanti parole.
Ancor più insopportabile è la comunicazione anche non verbale di significato pietistico o anche solo pietoso.
Guai! Guai, ad avvicinarsi ad un malato con frasi del tipo «poverino…, mi dispiace tanto per te…, devi stare proprio male…».
Ma attenzione anche a complimenti forzati ed esagerati come “stai benissimo, non sembra che tu sia malata o che stia facendo la chemioterapia”.
Anche le dichiarazioni di ammirazione per il coraggio e la forza dimostrate nell’affrontare la malattia servono a poco, dal momento che nessuno di noi conosce le risorse interiori di cui potrebbe disporre nel momento della necessità e poi sentirsi degli eroi perché si ha il cancro non fa piacere a nessuno, chiunque, se potesse, preferirebbe la salute all’eroismo!
«Certo che il tuo è proprio un miracolo, chi l’avrebbe mai detto?». E certo, fa piacere sentirsi un sopravvissuto scampato a morte certa oppure un man dead walking! Eppure quante volte sono state dette frasi come questa anche dai medici.
Tutto questo non significa che l’unica comunicazione possibile sia il silenzio, ma la spontaneità e la disponibilità all’ascolto sono le chiavi per entrare nel cuore della persona che si ammala di tumore per esserle vicino e sostenerla nell’affrontare ed elaborare l’esperienza che si trova a vivere. E allora, e solo allora, insieme si potrà anche ridere, riflettere, arrabbiarsi, sfogarsi e riprendersi la vita!
Rischiose, oltre che inutili, le affermazioni che indicano come falsi miti la pericolosità di uso e abuso di fumo e alcool o quelle sull’inutilità della prevenzione e sui corretti stili di vita (alimentazione, peso, movimento).
Ma c’è un aspetto ancora poco noto e disconosciuto della malattia oncologica: la cronicità.
I malati cronici di cancro o lungosopravviventi oncologici non sono una chimera o una semplice speranza: sono realtà, esistono e saranno sempre di più perché di cancro ci si ammala sempre di più e con il cancro si convive sempre più a lungo (quando la guarigione non è possibile). Ma i cancer survivor rischiano di essere disabili invisibili perché, anche a causa dei falsi pregiudizi e per evitare ingiuste discriminazioni sociali e lavorative spesso scelgono la via del silenzio e dell’oblio.
«Se lo nego non t’accorgi se lo dico ti sconvolgi», questo il senso di un atteggiamento difensivo e di negazione di una parte del proprio percorso di vita che serve, o almeno si pensa che serva, ad evitare lo stigma e a ritornare alla “normalità” precedente la diagnosi. Ma la vita dopo il cancro non è mai, mai più, la stessa, spesso è più ricca, almeno interiormente, e solo sfatando certi falsi miti e facendo outing, che si potrà arrivare al giusto e sereno riconoscimento di una vita riconquistata dopo la malattia o con la malattia. È inaccettabile doversi nascondere per il timore di essere esclusi dai rapporti sociali o, ancor più preoccupante soprattutto in questi tempi, di essere allontanati dal lavoro.
La cronicità oncologica è, ancor oggi, un profilo appena abbozzato nell’immaginario collettivo, che teme il cancro come malattia comunque mortale, anche se curabile con grandi sofferenze e per periodi di tempo limitati. La cronicità oncologica, anziché opportunità di vita, rischia di diventare una condizione di intensa sofferenza, se non è affrontata e supportata adeguatamente nella sua complessità che investe non solo la dimensione strettamente clinica del problema (nelle sue accezioni mediche e psicologiche) ma anche la sfera familiare, lavorativa, economica e sociale del malato.
Devono essere valorizzate e fatte conoscere sempre di più le vite di donne e uomini che dopo un tumore ritornano alla vita di tutti i giorni. Un forte messaggio di speranza da cui può partire la rivoluzione anche culturale nei confronti del cancro.
Insieme possiamo!
Gli entusiastici proclami di formidabili scoperte scientifiche che promettono la definitiva e totale sconfitta del tumore fanno male ai pazienti che mal tollerano certa “superficialità” nel creare aspettative e speranze che spesso si rivelano illusorie o comunque lontane dalla realtà attuale.
Certamente negli anni, la percezione nei confronti del cancro si è evoluta, ma nel vissuto sociale e nell’immaginario collettivo è rimasta, comunque, qualche passo indietro rispetto ai risultati ottenuti dalla comunità scientifica: quante volte si sente ancora dire “brutto male”… come se la malattia potesse essere “bella”, o peggio, quando si parla di “un male incurabile”, mentre è proprio la persona che non ha speranza di guarire a potere, anzi dovere essere curata! •

Elisabetta Iannelli, segretario Favo (Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia)

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