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La vangatura della vigna

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In campagna nei primi tepori dopo la stasi dell’inverno

Uno dei primi lavori agricoli che occupava non poco il contadino, dopo la stasi dei mesi invernali, era la coltivazione della vigna. Alla fine di febbraio e nei primi giorni di marzo, se il tempo lo permetteva, si scaricava il letame che veniva rovesciato alla base della vite. Se era il caso, venivano innestate viti nuove e potati i tralci vecchi. I sarmenti tagliati, raccolti e sistemati sotto gli spazi antistanti al forno erano utilizzati come legna da ardere, quando il pane veniva fatto ancora in casa. Si procedeva poi alla propagginazione il cui scopo era quello di rinnovare le piante; consisteva nel piegare il ramo di una pianta non reciso e sotterrarlo perché mettesse radici e quindi, staccato dalla pianta madre, costituisse un nuovo ceppo. In Aprile si coprivano le propaggini di buona terra, si piantavano i sostegni, si legavano le viti con rametti di vimini o con legacci di paglia, preparati e bagnati precedentemente.
Arrivava poi la vangatura della vigna. Ad aiutare il contadino arrivavano i parenti di lui o della moglie ed era una occasione per stare insieme; vangando si parlava di affari, si cantava ed anche se la fatica era pesante, era anche un momento di allegria. “Lu raiudu”, “Andare a parente” sono consuetudini del tutto scomparse oggi, perché tramontata la famiglia patriarcale che le sosteneva, ma fino a pochi anni fa, facevano parte, a pieno titolo della cultura contadina. Si tiravano fuori lonza, salame, ciauscolo, pane, il tutto innaffiato con del buon vino. La “vergara” aveva il suo da fare, ma era contenta e ci teneva a fare bella figura, preparando il pranzo, la merenda “la merenna”, portata direttamente, quest’ultima, nei campi. Un grande cesto di vimini sul capo, fazzolettone arrotolato a forma di ciambella che servisse come da cuscinetto, brocca dell’acqua su una mano, sull’altra quella del vino e via con un’andatura spedita, senza che cadesse mai nulla.
Nelle campagne brianzole di una volta si poteva assistere alla stessa scena, ma i pesi erano portati con una tecnica diversa. Secchi “sidel” e cesti erano appesi alle due estremità di un lungo bastone “ul bager”, portato in spalla, le mani erano libere, in testa non si portava nulla. Era un modo di trasportare i pesi secondo un costume orientaleggiante. Non sono riuscito mai a spiegarmi il perché di quest’usanza. Anche lì era la “regiura”, coadiuvata dal “regiù”, rispettivamente la “vergara” e il “vergaro”, ad avere il loro gran da fare, quando sotto lo stesso tetto coabitavano più nuclei familiari.
La cascina brianzola era molto diversa dalle nostre case coloniche. Consisteva in tre corpi di fabbrica ben distinti. Il primo era una costruzione a due piani, in qualche cascina c’era anche un terzo piano, più basso, quasi un abbaino. Al piano terra era sistemata la cucina. Attraverso una scala interna si saliva alle camere poste al secondo piano. La scala e il cortile erano il luogo d’incontro. Nell’abbaino se c’era, erano sistemati i ragazzi. Sull’altro lato della cascina si trovavano lo “stabiel”, il ricovero per mucche e maiali e il “pulè”, il pollaio. Di fronte c’erano i fienili, coperti e tamponati con mattoni a sbalzo. Di diverso tra le due realtà geografiche così distanti tra di loro è solo il tempo. Lassù, la cultura popolare contadina è scomparsa circa settanta ottanta anni fa, con l’avvento dell’industrializzazione. L’ultimo lato del cortile era aperto per entrare nei campi. Le prime botteghe artigiane del mobile nascono attorno agli anni venti, subito dopo la prima guerra mondiale. I primi locali utilizzati furono proprio le cascine dismesse, famosa tra tutte, per questo primo uso, era a Giussano la cascina “Miee”, chiamata così perché posta accanto ad un vecchio miliario, lungo l’antica strada romana che da Monza conduceva a Como.
La viticoltura poi in Brianza non esiste più dalla metà del 1600 circa, quando il terribile flagello della fillossera convinse i proprietari terrieri ad investire i loro capitali nella più redditizia gelsibachicoltura, unita alla nascente industria serica, le prime filande disseminate lungo il corso dei fiumi: Seveso, Lambro, Adda. Le viti erano coltivate sui ronchi, “i pianöö”, lunghe strisce di terreno sistemato a gradoni. La potatura avveniva nella parte piana, detta “contra”. Il vino prodotto era di bassa gradazione alcolica. Si chiamava “ul pincianel”. Porzioni di territorio, adibite proprio alla coltivazione della vite, era possibile rintracciarle nei terreni situati attorno alla cascina “Sala”, una imponente costruzione, risalente al 1700, posta nella parte alta del paese, assieme ad altre cascine, alcune restaurate: Cascina Torre (antica torre di guardia), Capra, Rebecca, Costa/ Costaiola, Lazzaretto, Preziosa. Oggi, solo il colle di Montevecchia, l’antico Mons Vigiliarum, punto di osservazione strategica per controllare l’arrivo dei barbari dal nord, amena località che si affaccia nella valle del Curone, è in grado di produrre un apprezzato vino locale, il bianco di Montevecchia, ottimo per accompagnare salumi e formaggi caprini che le trattorie del luogo propongono ai numerosi turisti domenicali. •

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