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Il primato della Coscienza sulla cieca obbedienza

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“ …Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa… Se ci dite che il rifiuto di difendere se stessi e i suoi secondo l’esempio e il comandamento del Signore è estraneo al comandamento cristiano dell’amore allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!” (Don Milani, ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965).

Domenica 14 febbraio 1965 era una giornata gelida e nevosa. Il prof. Agostino Ammannati, accompagnato da un paio di giovani di Calenzano, salì a Barbiana per portare al priore un ritaglio di giornale. Su La Nazione, quotidiano fiorentino per antonomasia, un gruppetto di cappellani militari aveva rilasciato questo comunicato: “Nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno: I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale della associazione svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d’Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza, che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.
Don Milani lesse il comunicato ad alta voce davanti ai ragazzi della Scuola. Questi rimasero indignati e ascoltavano il loro priore. Come potevano definire vili dei giovani ventenni che accettavano di pagare il loro rifiuto della divisa e delle armi con la pena del carcere? Come si poteva giudicare estranea al Vangelo la non violenza praticata dagli obiettori? Tutti aspettavano che il priore rispondesse pubblicamente, anche perché i cappellani militari si erano serviti di un organo di stampa. E don Milani rispose come sapeva fare lui, con un linguaggio preciso, tagliente ma soprattutto con una documentazione storica e giuridica. Impiegò una settimana per preparare la Lettera ai cappellani, il 23 febbraio era già pronta: un solo foglio scritto molto fitto e stampato in tremila copie, che inviò a undici giornali, soprattutto cattolici, ai sindacati, agli amici di Barbiana e soprattutto ai preti fiorentini.
Nell’ambiente cattolico fiorentino, il problema dell’obiezione di coscienza era stato sollevato il 18 novembre 1961 dal sindaco Giorgio La Pira con la proiezione del film Tu né tueras point (Non uccidere) del regista francese Claude Autant- Lara, un film simbolo sull’obiezione di coscienza, tanto da essere censurato e vietata la proiezione in diverse nazioni, fra cui l’Italia. Il film narra la storia realmente accaduta di due giovani, l’uno cattolico francese e l’altro un seminarista tedesco che si erano ritrovati in carcere per gli stessi motivi. Il giovane francese si era rifiutato di indossare l’uniforme perché, come cattolico, non intendeva imparare a uccidere. Il seminarista tedesco si era consegnato alla giustizia transalpina per aver ammazzato un partigiano in obbedienza ai superiori. La proiezione del film era stata anticipata il 17 novembre dello stesso anno con una conferenza, tenuta a Calenzano dal cattolico francese Jean Goss, membro del movimento internazionale per la riconciliazione delle Chiese. Don Milani, in quell’occasione, si prestò a fare da traduttore al conferenziere e ricordò come la Chiesa Cattolica fosse in ritardo rispetto alle altre Chiese sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Questa presa di posizione provocò la critica stizzita di don Luigi Stefani, un prete profugo di origine istriana, ex cappellano militare, noto a Firenze per le sue posizioni anticomuniste e tradizionaliste, che era presente all’incontro.
“Caro don Milani, i panni sporchi si lavano in famiglia”, polemizzò don Stefani. Don Lorenzo Milani replicò subito: “No, no, qui si fa il contrario: i panni sporchi si lavano in pubblico. C’è un comandamento, ricordati, che impone di non dare falsa testimonianza. Io non sono qui per fare réclame alla ditta” .
L’obiezione di coscienza divenne un problema serio quando Giuseppe Gozzini, cattolico, iscritto all’Azione Cattolica, richiamato alla leva militare, rifiutò il servizio militare e andò in carcere. Era il primo giovane cattolico che obiettava. Ai giudici che lo condannarono a sei mesi senza condizionale, Gozzini spiegò di trarre dai principi evangelici e dalla morale cattolica le ragioni del suo rifiuto a indossare una divisa. Il processo si tenne l’11 gennaio 1963. Fino allora, il problema aveva toccato solo i giovani protestanti che erano assistiti dalla solidarietà della loro chiesa, spiegò don Milani che decise di partecipare a una manifestazione in sostegno del giovane cattolico, nonostante la curia gli avesse proibito di spostarsi da Barbiana. La manifestazione, prevista per il 20 dicembre 1962, non si tenne e don Milani rimase a Barbiana. “Il gesto arbitrario di Gozzini”, precisò don Stefani, assistente diocesano femminile dell’Azione Cattolica, “poneva il giovane al di fuori delle norme di ubbidienza alle legittime autorità dello Stato e quindi in contrasto con i principi della morale cattolica”. I giudici, che avevano condannato il giovane, avevano dichiarato nel loro atto di condanna che “spettava allo Stato la funzione di “metro della moralità e della socialità di un paese ai fini penali”.
Padre Ernesto Balducci difese il giovane in un’intervista pubblicata su Il Giornale del Mattino, il 13 gennaio 1963, sostenendo che la chiesa aveva sempre adottato la nozione di guerra giusta e guerra ingiusta. Anzi nel contesto storico di proliferazione delle armi nucleari, la Chiesa si era spinta a dichiarare che una guerra totale sarebbe inevitabilmente ingiusta. Balducci finì sotto processo per apologia di reato e con lui, Leonardo Pinzauti, il direttore de Il Giornale del Mattino, al quale don Milani era abbonato. I due furono assolti con formula piena nel corso del processo che si tenne il 7 marzo 1963. Ferruccio Perfetti, procuratore generale presso la corte di Appello di Firenze, ricorse in appello. Il nuovo processo si tenne il 15 ottobre 1963. Padre Ernesto Balducci venne condannato a otto mesi con la condizionale e le attenuanti generiche. Il 1 giugno 1964 la Cassazione confermò definitivamente la condanna. Fu in questo clima arroventato che don Milani decise di dire la sua su un argomento che allora divideva le coscienze soprattutto nel mondo cattolico, dandone comunicazione alla mamma: “Sto scrivendo una lettera ai cappellani militari in risposta a quel loro discorso apparso su La Nazione del 12 febbraio. L’hai vista. Spero di tirarmi addosso tutte le grane possibili”.
E ancora: “Ho lavorato due giorni alla risposta ai cappellani militari. Oggi l’ho mandata a stampare per mandarne una copia a tutti i preti fiorentini e a tutti i giornali. Ho fatto così perché la bellissima lettera del Borghi (indipendente dalla mia e molto diversa) non l’ha pubblicata nessuno per ora e siccome la mia è più velenosa, penso che faranno altrettanto anche con me. Così a ogni buon conto in mano ai preti fiorentini arriva ugualmente” (Lorenzo Milani, Lettere alla mamma, pag. 199).
“Era una faccenda di famiglia, un dissenso religioso morale civile tra preti”, sottolineò Ignazio Silone in un suo bellissimo articolo che iniziava così: “Cerchiamo almeno di difenderli i nostri poveri santi, finché vivono tra noi”.
La lettera di don Milani “Ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11.02.1965”, inizia così: “Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l’avrei voluto privato ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente. Primo perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, che io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore”.
Don Milani invitava i latori del comunicato stampa a rispondere alle singole domande contenute nella lettera. Le risposte dovevano essere precise anche perché, precisava che “l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né di un vostro silenzio né di risposte generiche. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti”.
I cappellani militari avevano usato il termine di Patria senza nessuna distinzione. Don Milani rispondeva asciutto: “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate, sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruenti: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se sono uomini che per le loro idee pagano di persona”.
Dopo aver ricordato che Gesù era contrario alla violenza e che non aveva accettato nemmeno la legittima difesa, don Milani ricorda due articoli della Costituzione Italiana: l’art. 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” e l’art. 52 “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Invitava pertanto a misurare con questo metro le guerre cui il popolo italiano era stato chiamato a sostenere in un secolo di storia: “Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in questi casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza”.
Continua pertanto con le domande rivolte ai cappellani militari: “Dovrete spiegarci chi difese di più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici… Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione di ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore sugli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine di un ufficiale ribelle al popolo sovrano la continuava don Milani e i cappellani militari non avevano mai obiettato a nulla se erano ancora vivi e graduati. L’esercito poi esisteva perché con la Patria “difenda gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia”.
Il priore di Barbiana passava poi in rassegna tutte le guerre sostenute dal popolo italiano dal Risorgimento in poi, invitando i cappellani militari a “dire da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare”.
Nel 1860 “Un esercito di Napoletani, imbottiti dall’idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria… La guerra del 1866 fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme… Furono aggressioni certo le guerre (1867- 1870) contro i Romani i quali non amavano la loro secolare Patria, tant’è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria…
Nel 1898 il Re Buono onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L’avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare le tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono ottanta, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare, tornarono a casa a mangiare polenta. Poca perché era rincarata”.
Furono di aggressione le guerre coloniali, contro l’Eritrea, l’Abissinia e la Libia.
Nel 1914, l’Italia aggredì l’Austria con cui era alleata. L’inutile strage, l’espressione non è di un vile obiettore di coscienza ma del Papa Benedetto XV, poteva essere risparmiata: “Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti”.
“Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette ad aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza cieca, pronta, assoluta, quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50 milioni di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo”.
Nel 1936 cinquantamila soldati italiani appoggiarono il colpo di stato del generale Franco, dal ’39 in poi i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro: Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia.
Nella sua requisitoria, don Milani salvava “una sola guerra giusta, se guerra giusta esiste. L’unica che non fosse offesa alla Patrie altrui, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i ribelli, quali i regolari?… Poi per grazia di Dio, la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati”.
L’obbedienza militare che i cappellani militari esaltavano senza un “distinguo” era in stridente contrasto con la parola di San Pietro: “Si deve obbedire agli uomini o a Dio?”.
Don Milani ricordava che in altri paesi esisteva una legge che disciplinava l’obiezione di coscienza. Se in Italia non c’era questa legge, non era colpa loro se gli obiettori non avevano altra scelta di servire la Patria oziando in prigione. Anche quel Concordato che i cappellani militari volevano tanto celebrare riconosce, al suo terzo articolo, l’obiezione di coscienza dei vescovi e dei preti. Se la Chiesa non si era ancora pronunciata contro gli obiettori, i cappellani militari non avevano nessuna autorizzazione di chiamarli vili: “E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s’è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l’eroismo patrimonio dei più? Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione ma non è bello stare dalla parte di chi ce li tiene”. Si sa come andò a finire.
Don Milani fu accusato di apologia di reato. La lettera fu incriminata. Luca Pavolini, direttore di Rinascita, fu condannato anche lui per aver pubblicato la lettera. Quel che don Milani aveva sperato non si era verificato.
Nessun giornale cattolico si era preso la briga di pubblicare la lettera. Raccolte le ultime forze, don Milani si accingeva a scrivere la propria autodifesa, spedendo la Lettera ai Giudici. Le due lettere furono raccolte nel libro “L’obbedienza non è più una virtù”. •

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