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Cucina, tradizione, territorio

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Ristorante chilometri zero. Ma nel senso di pappardelle al sugo di lepre, calcioni con ricotta di pecora al ragù vegetariano, gnocchi ai funghi prataioli e turini locali, tagliatelle al fumé di trote, cinghiale secondo la ricetta di nonna Rotilia.
Oppure rosso tradizione. Ma nel senso di tris antipasto di salumi e formaggi locali su piatto grande, riso al radicchio, pappardelle con zucca e ricotta salata, spiedini di coratella su grigliata mista di maiale, vitello e pecora, filetto di trota tartufato o gratinato, agnello tartufato. Lettore, metti il tovagliolo al collo: leggendo questo articolo potresti ungerti. Parliamo di cucina “tradizione e territorio”, di piatti da cui colano sugo leggero, ideazione e gusto che possono stampare sulla tovaglia ciondoli color del rame, come vecchie medaglie.
Semplice e golosa, sontuosamente locale con vaghe nostalgie di un tempo svanito, quella del “Ristorante chilometri zero” di via Cesare Battisti è una cucina giovane, ricca di sapori audaci e intriganti, tutta giocata su intelligenti variazioni intorno ai prodotti eccellenti dell’alto Nera. Richiede buongustai pronti ad assaggiare di tutto e di più. E bere con l’allegra certezza di avere il tempo di riportare il tasso alcolico a quota zero. Cucina salutare e di qualità l’ha definita un avventore, facendo riferimento ai gusti e agli equilibri che caratterizzano il patrimonio agro-alimentare dell’alto Nera. Un esempio di coraggiosa imprenditoria familiare che mantiene vivo il senso di appartenenza, contribuendo alla rinascita delle comunità dell’alto Nera coinvolte nel sisma e a rischio abbandono. Metti allora una sera a cena. Ma anche un pranzo, o una di quelle merende che si facevano una volta a metà pomeriggio, complice il tempo piovoso, una fermata fuori programma, un amico incontrato dopo il terremoto.
Senza troppa etichetta ognuno può trovare qui il suo pezzetto di felicità gastronomica: cibo che conforta, ambiente amichevole, buon vino e prezzi accessibili. Per dirla con Aldo Palazzeschi questo piccolo ristorante è il salotto di chi non ha più casa, soprattutto se si è cordialmente accolti dalla gentilezza del titolare che incarna amabilmente l’idea del cuoco: giovane, moderatamente loquace, orgoglioso di ciò che offre. Umberto Conversano ha orecchie per ascoltare tutti, il commesso viaggiatore in giacca, il cliente gourmet, i ragazzi escursionisti, la famiglia di terremotati che festeggia un compleanno. A tutti spiega l’origine dei prodotti, descrive le ricette, chiede pareri, racconta i luoghi di provenienza. Discreto e convincente. È così che il ristorante Km zero, costretto a chiudere dopo le scosse telluriche del 2016, vive una seconda giovinezza con una cucina saporita e moderna, tradotta in piatti che appartengono alla cultura gastronomica locale, ripensati e ritoccati per attualizzarli.
Un’invisibile nuvola di odori si alza dal piccolo ristorante e ci riporta diritti alle dieci trattorie, una più una meno, che costellavano Visso di qua e di là del fiume, e al ricordo del vino che si misurava a barzilai o boccale cioè bottiglione da due litri, mentre il litro si chiamava tubo, la foietta corrispondeva a mezzo litro, il quinto di litro, chiamato chierichetto, conteneva vino quanto l’ampollina della messa, mentre il decimo di litro era soprannominato poeticamente sospiro. Ben venga anche l’odore di aglio, di sedano, dell’alloro amico dei poeti ma ancor più dei fegatelli, e le altre erbe come la ruta, la ruchetta che sa di fiammifero sfregato, la salvia, l’erba cipollina, e poi le sorelle diverse – la menta, la mentuccia e la menta romana – che mescolate a materie prime disperatamente povere quali la trippa e la coda le rendono degne dell’onor del convito. Contro l’appiattimento, lo scoraggiamento e la resa al terremoto Umberto Conversano ha stilato i comandamenti della sua cucina: prodotti di stagione, tempi giusti di cottura e olio extravergine proveniente dai suoi oliveti maceratesi, per una gastronomia che tenga fede alle promesse, direi quasi la freschezza del territorio saltata in padella.
Una sapienza particolare gli permette di assemblare in maniera efficace i prodotti provenienti dai quattro angoli dell’alto Nera. Ricotta, tartufo, paté di roveglia, farine di farro e di semola integrali avvolgono i piatti con inaspettata eleganza. Se non vi basta regalatevi una porzione di tagliatelle al tartufo scortate da una bottiglia di Lacrima di Morrovalle, un rosso dal sapore vasto che dilaga per la bocca e la pulisce rendendola pronta a ricevere la torta del buon saluto: un dolce di ricotta che Conversano personalizza con marmellata di visciole o di prugne preparata in casa. Chiusura in gloria con un sospiro di Montefalco Sagrantino passito, l’ultimo sospiro di chi, in tempi di crisi sismica, non ha altri quattrini da spendere e si contenta di questo vino dolce e vivificatore che mentre lo stomaco sussulta di gioia riesce a dare speranza anche a un terremotato. •

Valerio Franconi

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