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NON SOLO EMERGENZE

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La pastorale della salute: uno stile di chiesa

La diffusione del Covid-19 in Italia sta dimostrando una cosa: non siamo più abituati all’incertezza. Negli ultimi giorni abbiamo letto, visto, ascoltato e ripetuto un corollario di ansie, timori, ordinanze e disposizioni che, inevitabilmente, generano allarme e confusione. Vi è la necessità e il dovere di intervenire per il bene comune e la salute pubblica. E la Chiesa deve corrispondere con senso di responsabilità.
Tuttavia, ciò che sta accadendo, dovrebbe condurci a riflessioni che vanno al di là delle conoscenze di pratiche mediche e di analisi scientifiche, epidemiologiche o semplicemente statistiche. Per questo tipo di pratiche e analisi ci sono già numerosi addetti, che fanno egregiamente il loro lavoro: operatori statistici, volontari di associazioni, medici di base e medici specialisti, infermieri. A questi si aggiungano anche e soprattutto esperti come epidemiologi, infettivologi, virologi. La diffusione del Coronavirus in Italia ci ha permesso così di ampliare la conoscenza delle molteplici figure professionali che sono al servizio della nostra salute. E ci ha fatto anche comprendere la complessità, l’efficienza, e anche la fragilità, del nostro Servizio Sanitario Nazionale.
Abbiamo anche imparato nuovi vocaboli come, ad esempio, epidemia, untore, pandemia, focolaio, pre-triage, paziente-0, mortalità e letalità, virulenza. Abbiamo recuperato dalla storia pratiche importanti come la quarantena e l’isolamento, e, forse, abbiamo recuperato dall’educazione civica il senso di responsabilità sociale attraverso la pratica dell’autoisolamento. Ma stiamo anche imparando sulla nostra pelle cosa significa sentirsi esclusi e isolati da paesi a noi amici e vicini.
Stiamo imparando molte cose nuove e stiamo recuperando altre antiche. Abbiamo acquistato e conquistato in questi ultimi anni una grande e grave capacità di controllo, di big data, di intelligenze artificiali, di connessione e iperconnessione. Abbiamo, con tutto ciò, acquisito l’illusione del controllo. E ogni tanto, come in questi casi, ci si rivela per ciò che è: un’illusione. E ci scopriamo politicamente, socialmente, psicologicamente fragili. Scopriamo che la nostra umanità è fragile. Scopriamo di essere ormai disabituati a vivere e a convivere con la malattia e, in ultima analisi, con la nostra mortalità.
Stiamo vivendo la prima pandemia social/global e, per alcuni, anche una sorta di info-demia. Le notizie sono frammentarie, emotive, non sempre esatte; e viaggiano veloci. La sovrabbondanza di informazioni, in certi casi, diventa ansiogena, con il rischio di trasformare il nostro sguardo in «sospetto» e le nostre relazioni in «contagiose».
Le grandi epidemie della storia sono state affrontate, per secoli, col passaparola; poi attraverso i giornali; quindi con i bollettini radio e i notiziari televisivi. Oggi sappiamo molto e molto in fretta: probabilmente troppo.
Siamo iperinformati e ipersensibili. Perché siamo diventati tanto sensibili? Forse perché, insieme ai rischi, sono diminuiti gli imprevisti. In tasca portiamo uno strumento che ci consente di conoscere le condizioni del traffico, le previsioni meteo, gli sforzi che facciamo durante la giornata.
Gli strumenti che abbiamo a disposizione ci hanno disabituato all’imprevedibilità che ha accompagnato tutte le generazioni prima di noi. Forse per questo temiamo tanto le malattie, che hanno invece segnato la storia dell’umanità.
Averne sconfitte moltissime è meraviglioso; ma ci lascia psicologicamente vulnerabili davanti a quelle che restano. L’ipocondria ha smesso di essere una patologia: è diventata un aspetto della nostra condizione sociale, e talvolta sfiora la superstizione. Si tende infatti a cercare in ogni «segno del tempo» occasioni per annunciare un qualche complotto o castigo o una qualche imminente apocalisse attraverso alcuni strani «avvertimenti» da parte di qualche divinità, come se non fosse radicale e normativo per noi cristiani l’avvertimento fattosi presente nell’evento della Incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, il primo, l’unico e l’ultimo degli «avvertimenti/segni di Dio», che ci indica il modo con cui stare il mondo e ci avverte su come vivere le nostre relazioni umani e sociali.
Oggi siamo, insieme, più forti e più deboli. La medicina ha fatto passi da gigante, la sanità pubblica è, insieme all’istruzione, la più grande conquista della nostra società. Fatichiamo però ad accettare che esistono fenomeni difficili da controllare, perché cerchiamo al di fuori di noi quella «sicurezza» che invece dovrebbe abitare dentro di noi.
Chissà se impareremo qualcosa, da quanto sta accadendo. Per esempio, se ricorderemo che siamo esseri fragili e preziosi. Se capiremo che, mentre passiamo in questo mondo, possiamo affrontare meglio le difficoltà unendo le forze e le intelligenze. •

Sebastiano Serafini

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