Come prima, peggio di prima. Un’altra opportunità sprecata.
Il Coronavirus ha provocato un azzeramento della nostra vita globalizzata, condotta a forte velocità verso mète, consumi e bisogni individuali, materiali ed egoistici. Un invisibile e minuscolo virus ha provocato morte e dolore, ma soprattutto ha paralizzato continenti interi e ha costretto tutti a rimanere nel chiuso della propria coscienza, a guardarsi dentro e scoprirsi deboli, fragili, indifesi. E soprattutto non essenziali in un mondo dove l’uomo non può credere di agire senza rapportarsi (bene) con la natura. Questa, proprio durante il lockdown, ha dato un altro (speriamo non ultimo) avvertimento, dimostrando che la diminuzione dell’inquinamento dell’aria e dei mari, raggiunta bruscamente in pochi giorni con il ‘tutto fermo’, si può (e si deve) ottenere definitivamente con una organizzazione industriale ed economica diversa da quella che lo sviluppo consumistico ha imposto negli ultimi decenni.
Il periodo del ‘restiamo a casa’ ci ha fatto riscoprire il valore delle nostre tradizioni e delle nostre origini legate alla terra: prigionieri in stretti e soffocanti palazzoni delle città, con fuori dalla finestra lo sconsolante panorama di altre colonne di cemento, abbiamo invidiato chi vive in campagna e in montagna perché ha potuto godere di spazi, aria salubre e paesaggi incantevoli.
Ci saremmo accontentati anche della libertà di chi risiede nei piccoli borghi, che sono il cuore dell’Italia e dove ogni abitazione ha almeno un piccolo giardino per prendere il sole e sgranchirsi le gambe, invece di doverci muovere nei pochi metri degli stretti terrazzi metropolitani.
Abbiamo anche scoperto che il piccolo negozio vicino a casa, oltre a fornire prelibatezze nostrane che solo la filiera corta può esaltare, è anche più veloce nelle consegne dei tanti mostri dell’e-commerce. E, infine, abbiamo sperimentato – per evitare assembramenti – che si può andare in ufficio anche in bicicletta, evitando mezzi pubblici e auto privata.
Abbiamo, insomma, avuto il tempo di fare un bell’esame di coscienza sul nostro modo di vivere e ci siamo ripromessi di cambiare.
Poi, però, le necessità finanziarie – come sempre – hanno preso il sopravvento, i conti in tasca sono tornati a predominare sui buoni propositi. All’inizio tutti pronti a indossare mascherine e a dotare le attività che riaprivano dei costosi dispositivi di sicurezza richiesti dai protocolli, tutti a usare il metro per misurare le distanze di tavoli, banconi e poltrone. Ma appena è stato possibile, ecco ricomparire la sete di guadagno e la furbizia italiana, un allentamento provocato anche dai numeri non più da paura di morti e contagiati. Così stiamo tornando come prima, se non peggio di prima, visto che la ‘famiglia’ dei bisognosi e indigenti è notevolmente aumentata.
Un vero peccato perché anche illuminati imprenditori avevano dato la disponibilità a ristrutturare dalle fondamenta lavoro, organizzazione sociale e tempo libero. Purtroppo, è clamorosamente mancata (ancora una volta) la classe politica, sia a livello nazionale sia locale. Il governo non è andato oltre i decreti per l’emergenza, incapace di disegnare anche una minima strategia a lungo termine.
Molti sindaci si sono impegnati a distribuire i buoni spesa e ad ascoltare le esigenze delle singole categorie, ma non hanno avuto uno sguardo oltre il quotidiano. Nessun primo cittadino che abbia preso il coraggio di coinvolgere i colleghi, gli imprenditori, i sindacati, le associazioni di categoria e gli operatori interessati, per cercare di redigere un progetto unico per rilanciare industria, agricoltura, artigianato e turismo dell’intero territorio. Peccato davvero. •