La rassegna, curata dal nostro giornale, continua con la lettura de “Bora Istria, il vento dell’esilio” di di Anna Maria Mori e Nelida Milani.
Il libro, Bora Istria, il vento dell’esilio, di Anna Maria Mori e Nelida Milani, pubblicato nel 2018 da Marsilio Editore per la collana Specchi, è un testo ricco di memorie, ricordi, aneddoti e riflessioni.
Leggendolo, scrive nella brillante prefazione Guido Crainz, è “Difficile non pensare alla antologia di Spoon River di Edgar lee Masters”, best seller degli anni settanta. In quarta pagina di copertina, scrive ancora Guido Crainz sul romanzo Bora Istria, il vento dell’esilio: “Questo è il libro da cui ho imparato una grande lezione di storia. Anche perché è in primo luogo una grande lezione di sofferente umanità”. C’è l’umanità di coloro che sono rimasti e di quelli che se ne sono andati.
Anna Maria Mori nel 1947 lascia con la famiglia la città di Pola, dove è nata nel 1936, per l’Italia, destinazione Firenze. Nelida Milani, anche lei nata a Pola, dopo l’annessione alla Jugoslavia della città istriana, sceglie invece di restare, rinunciando alla lingua e alle consuetudini di un mondo che, con ferocia, veniva snaturato.
Molti anni dopo Anna Maria e Nelida, hanno provato a ripercorrere le loro vite, dolorose e ingiuste, uguali e diverse. Una di qua e l’altra di là, si sono accorte che le loro vite combaciano perfettamente. Sono due vite parallele e sradicate: una dalla propria casa, dalla propria terra e dalla propria gente (Anna Maria Mori); l’altra dalla propria lingua, dalle proprie abitudini e dalla propria gente che partiva (Nelida Milani).
“Gli aneddoti si confondono con la cronaca, le riflessioni si intrecciano con la memoria in un viaggio dentro e fuori di sé, nei ricordi da confrontare con altri ricordi, e nei chilometri sulla costa o all’interno dell’Istria. Ogni volta che gli spettri dell’esilio e dell’intolleranza sembrano incombere nuovamente sull’Europa, appare più che mai necessario fare i conti con questa storia e con gli interrogativi che ancora l’accompagnano. Essa ci parla anche e talvolta soprattutto dell’Italia, della sua insensibilità di allora e dei decenni che sono seguiti, del suo non essere realmente nazione, perché altro sarebbe stato l’animo di una nazione vera” (A. Maria Mori, Nelida Milani, Bora Istria, il vento dell’esilio, seconda pagina di copertina).
Scrive Anna Maria Mori: “Non mi piacciono in eguale misura, da sempre, né le etnie, né quello che con etnie può fare rima, vale a dire le nostalgie. Della vita mi è sempre piaciuto, persino con rabbia, il qui e ora, e in suo nome ho sempre cercato di guardare avanti. Sul pericolo di guardarsi indietro, c’era la lezione che la sapienza antica ci ha tramandato e che io, istintivamente, ho subito fatta mia: vale a dire la leggenda di Orfeo, che proprio per aver guardato dietro di sé, venne punito dai suoi dei con la perdita della riconquistata Euridice” (Ibidem, pag. 18). Di Pola e dei ricordi ad essa legati, Anna Mori vuole rimuovere tutto, solo dopo aver protestato contro le bugie di allora, quando si diceva ed anche in Italia che gli Istriani erano fascisti: “Non è vero che io, e tutti i trecento esuli istriani, siamo, eravamo, borghesi e fascisti. Non è vero che tutta l’Istria era slava e doveva tornare alla Jugoslavia. Non è vero che tutta la mia gente è solo nostalgica e irredentista” (pag. 19).
Il 10 febbraio 1947, dopo un anno e mezzo di estenuanti trattative, i rappresentanti del governo italiano accettarono di firmare a Parigi il Trattato di pace che privava l’Italia dell’Istria, compresa l’enclave di Pola. Nei giorni seguenti, le truppe alleate, che presidiavano questa città, furono ritirate per cedere il posto ai nuovi occupanti. Per gli abitanti di Pola si aprivano le porte dell’esodo. Tutta la città di Pola, che contava allora trenta quattro mila abitanti, era in smobilitazione. Trenta mila italiani avevano optato per la cittadinanza italiana e si apprestavano a lasciare la città istriana.
Ripensando alla gente che partiva, scrive così Nelida Milani: “Ci sono cose che accadono e non si sa bene perché. Accadono e basta e noi ci stiamo dentro. Cosa possiamo cambiare? Nell’aria è sospesa una specie di angoscia che penetra fin nel fondo ai cuori.
Dalle colline argentate di ulivi e dai paesi, dai boschi e dalle strade, dalle spiagge di scoglio sul mare, dalle vigne coltivate in fortezze di sasso, centinaia di figure e voci giungono in processione. Si susseguivano i dibattiti, discussioni, visite di commissari internazionali, cortei contrapposti, sputi e invettive, discorsi dal palco, la predicazione comunista – capo gettato all’indietro, pugno sul tavolo come un martello – secondo cui la sola verità doveva essere la loro, scandita, urlata, sbraitata. E tutto sulla testa della povera gente, come se fosse in corso un processo per colpe storiche, ataviche, colpa di essere nati sotto una stella sbagliata. Tra gli avvertiti, c’erano quelli che si sentivano imbiliati (infuriati) contro De Gasperi, quelli schiantati dal dolore, quelli che diventavano pensosi non potendo trovare la loro felicità nel primo piano quinquennale, quelli che parlavano del più e del meno in preda a capricci di autocompassione o sull’orlo della disperazione, quelli che avevano perduto tutto sotto i bombardamenti e non avevano ancora riparato i danni, così si difendevano dalla ferocia dell’inverno con materiali d’accatto, tavolacci, travature di legno, infissi, portoni, trafugati dalle batterie e dai cantieri, quelli che non riuscivano a digerire lo slavo, tentavano ma non ce la facevano, vendevano il mobilio per due soldi, non mangiavano più e traslocavano con una tomba scavata nella testa, quelli che trovavano la cosa scandalosa e quelli che la trovavano naturale e giusta, quelli che mettevano in pratica la solita filosofia del focolare, “fioi, acqua in boca, prima vedemo dove che tira el vento” (pp. 133- 134). .
Da Pola partiva di tutto, finanche le ossa dei propri defunti, prelevate dal cimitero. Quasi tutti staccarono un pezzetto di pietra dall’Arena romana per conservare un ricordo simbolico della loro città. Fu imballata anche la salma dell’eroe Nazario Sauro per trasferirla a Venezia. Urgevano chiodi; ne furono distribuiti tre etti per famiglia. La motonave Toscana aveva nella propria stiva quattro tonnellate di chiodi e parecchi metri cubi di listelli da imballaggio. Tutti i mobili venivano portati lungo le strade.
“Ricordo il suono dei martelli che battevano sui chiodi, il camion che trasportava la camera da letto di zia Regina al molo Caron, avanzando tra edifici mortalmente pallidi di paura, e tutti gli imballaggi che infradiciavano nella neve e nella pioggia. La grande nave partiva due volte al mese, dai camini il fumo saliva al cielo come incenso e insinuava negli animi il tormento sottile dell’incertezza e l’ombra dell’inquietudine; ognuno si sentiva sempre più depresso dall’aria di disgrazia che aleggiava sugli amici che si incontravano per strada. Via via il Toscana aveva informato tutti i polesani: le famiglie bene, molti professionisti, il farmacista, l’ufficiale che ha sposato la cecoslovacca, il dentista che ha sposato l’ungherese, il professore di inglese che ha sposato l’italiana, la vedova di un ebreo, la bella Vanda che riceveva i soldati americani, lo scroccone di sigarette americane, l’ubriacone che, caldo della grappa in corpo, scioglieva la neve dove cadeva disteso, il vecchio suonatore di rimonica seguito dal suo bastardino, le sorelle Antoni che imbarcavano anche il padre moribondo, pur non potendo ragionevolmente pensare che il vecchio sarebbe tornato come speravano per se stesse, e neppure avrebbe raggiunto la destinazione che si erano proposte. Era partito anche il parroco di Gallesano, trascinandosi dietro un cassone pieno di testi più amati, Sant’Agostino, Santa Teresa, e annunciava la fine del mondo per la domenica seguente. Centinaia di gallanesi ci credettero. Ma quando videro che non era successo niente non si arrabbiarono come si poteva immaginare. Pensarono che il prete aveva fatto male i calcoli e la maggior parte non smise di credere in lui. Partì il mondo dei mille mestieri, l’operaio e l’artigiano, il contadino e la tabacchina, l’ortolano, il bandaio, il carraio, l’impagliatore, il bottaio, il fornaio, il muratore, il veterinario. Partirono gli operai di fabbrica, i fonditori, i fabbri, i meccanici della K. und K. Marine Arsenal, i motoristi e i tornitori di Scoglio Ulivi, i falegnami e i calzolai, lo stagnino, la rammendatrice, il pastaio, il barbiere, i garzoni di bottega, i pescatori con odore di salsedine, di ostriche e di alghe, i minuti artigiani di ogni cosa, dal vino ai mattoni, dal sego ai vetri, dai cappelli ai nastri, dalle paste alimentari al saldame, dalle barche ai libri, dall’opera lirica a giornali.
Partirono i padri dei ragazzi partigiani e poi anche gli ex partigiani. Invano avevano cercato di far fronte a una civiltà incomprensibile. Che cosa avevano fatto per meritarsi quel mondo in cui sentivano di non avere alcuna possibilità di condurre una vita piena, realmente umana? Per noi che restavamo, era l’inizio di una nuova era. Dopo, infatti, le cose non sarebbero mai più state uguali, né facili” (pp. 152 -. 154).
Scrive ancora Nelida Milani verso quanti sono partiti: “E se foste rimasti? Se con astuta pazienza foste rimasti in Istria, a casa vostra, le vostre case, le vostre stalle, le vostre campagne, i vostri appartamenti, non sarebbero stati occupati. Tutti i liberatori se ne sarebbero andati, uno dopo l’altro. Ecco, anche questa l’è finita, avremmo commentato. Ecco, se ne sono andati anche costoro” (pag. 236). Anna Maria Mori, pur avendo scelto l’Italia come sua nuova patria, rimane una profuga. Lo impara a sua spese ogni volta che ha bisogno di un certificato: “Allora: nata, dove? A Pola. L’impazienza aumenta: questa qui si permette di far perdere tempo anche con una banalità come la geografia. Come ha detto? Pola, Istria. Questa volta l’esitazione passa dall’altra parte: qualche secondo di silenzio imbarazzato. E poi: Ah, in Jugoslavia. Lei è jugoslava. Veramente no: io sono nata in Italia. Un’illuminazione: Ah già, dimenticavo.
Allora lei è profuga. E chissà perché la cosa, lei è profuga, faceva così ridere il professore, la professoressa, l’impiegata del comune o dell’anagrafe che me lo chiedevano. A me veniva da piangere. Anche e soprattutto perché gli altri ridevano” (pag. 237). È la conclusione del romanzo. •