Emigranti ed emigrazione.
“Osas è un ragazzo nato nel villaggio di Esan in Nigeria. Una notte d’estate all’insaputa dei suoi genitori decide di partire. Una voce interiore lo spinge ad intraprendere il viaggio della vita. Sarà un lungo viaggio che lo porterà ad affrontare esperienze forti che mai avrebbe immaginato. Finalmente approda in Italia nel 2015, per poi giungere nelle Marche dove inizia a vivere e avere incontri fortuiti che gli daranno la forza di sognare”. Così scrive in quarta pagina di copertina, Diana Montedoro, autrice del libro, Siware. Il viaggio di Osas, novantatré pagine, rese belle anche da disegni appropriati, frutto del genio creativo di Maria Luisa Mancino, mentre Tamara Ottaviani, con la sua capacità progettuale, ha reso possibile la pubblicazione edita da Amazon.
Osas nasce in Nigeria il 15 novembre 1996 a Esan, villaggio alla periferia di Benin City, abitato da poveri agricoltori. Il babbo Monday e la mamma Benedicta si sposano in giovane età. Dal matrimonio nascono dieci figli, tre muoiono in tenera età. Osas è il più grande. Vengono poi due sorelle, Blessing e Victory e quattro fratelli: Tankod, Saviou, David e Hope. Osas ricorda spesso la propria famiglia nel corso del suo racconto: “Cristian, il penultimo dei miei fratelli, mi veniva spesso affidato dalla mamma per farlo addormentare. Lo stringevo forte e rimanevo a guardarlo in tutta la sua bellezza.
Un giorno però anche il suo sguardo si spense” (pag. 37). Il fratellino muore nonostante la corsa della mamma e del papà presso l’ambulatorio medico del villaggio vicino.
Nel bambino, che ha in braccio, mentre attraversa il deserto su un camion, assieme ad altri sventurati, disidratati per la grande sete, in preda al panico, rivede gli stessi occhi di Cristian: “I bambini divennero irrequieti e tutti cercammo di tranquillizzarli passandoceli a vicenda. Anche io feci la mia parte. Presto mi trovai in braccio un bimbo, forse avrà avuto un anno. Era bello, con occhi neri e labbra carnose che profumavano ancora del latte della mamma. Mi guardava intensamente, ma non sorrideva. Sembrava aver capito tutto quello che stavamo vivendo. Il suo sguardo era spento, come rassegnato. Ecco, lo riconobbi quello sguardo. Era quello di Cristian” (pp. 36- 37).
Il papà Monday, dopo dodici, tredici ore di duro lavoro nei campi, poteva portare al mercato qualche mango ma era molto poco per sfamare tante bocche. “Abba, così si dice il babbo nella mia lingua, è alto, magro, con il viso segnato dal sole. Da piccolo lo guardavo ammirato per la sua forza e la sua tenacia, mai scoraggiato, nonostante la vita fosse davvero difficile.
Quando mi vedeva triste e cupo. Mi diceva di stargli vicino e iniziava a raccontarmi le storie della Bibbia, rassicurandomi che Osanobla, Nostro Signore, non ci avrebbe mai abbandonato” (pag. 14). Papà e mamma, profondamente credenti, avevano scelto di chiamare il piccolo Osas, Osemudiamhen, Dio è con me.
Il racconto del viaggio si sviluppa in dieci brevi capitoli. Frequenti flashback, come quelli ricordati sopra, si alternano alla narrazione e alla descrizione, ricche di particolari.
È buio quando Osas accende il motorino del babbo per allontanarsi dal villaggio, dove abita con i propri genitori e i fratelli, per raggiungere Benin City: “L’adrenalina mista alla paura saliva man mano che diminuivano i chilometri che mi separavano dalla meta”. L’arrivo alla città è alle prime luci del mattino: “Stava albeggiando, il sole rosso e grande saliva nel cielo blu di una calda giornata d’estate e la mia vita era ormai ad una svolta”. Osas ha sedici anni. Il biglietto per la frontiera costa 20 Naira, la moneta del posto.
Si appoggia ad un muretto e gli si avvicina un uomo che gli chiede di lavorare per lui. Osas deve portare cinquanta, sessanta sacchi di noccioline per circa un chilometro di strada. Va a dormire su un cartone come letto e ha un sacchetto di Naira come ricompensa per il lavoro fatto. Nel sonno sogna la ninna nanna, che la mamma gli cantava da piccolo per farlo addormentare: “Osasko piccolino, se sarai un buon bambino, con me starai tranquillo. Io ti sono vicina, io ti sarò vicina”.
Si sveglia quando “il sole aveva preso il posto della luna”. Si lava ad una fontanella e si avvicina poi alla fermata dell’autobus. Conta il denaro che ha. Gli basta per il viaggio. Si siede in fondo all’autobus e guarda i bambini che giocano con l’acqua della fontanella dove si era lavato poco prima. Erano i gli stessi giochi che faceva da bambino. Scende dall’autobus e si avvicina a piedi verso un cartello che reca scritto: “Stato del Niger”.
Gli si avvicina un furgone guidato da un signore tarchiato. Osas gli dice che deve andare ad Agadez ma non ha i soldi. Il conducente del mezzo lo fa salire. Diventa il secondo padrone. Passa forse una settimana. Tutti i giorni lo stesso lavoro. Si carica sulle spalle sacchi di cemento. Non riceva nessuna paga per il lavoro fatto. Gli viene data una bottiglia d’acqua per bere e una ciotola di riso per mangiare. Dorme su cartoni sparsi dappertutto.
A notte fonda, il furgone che prima aveva contenuto sacchi di cemento, ora è carico all’inverosimile di persone. Osas si siede in fondo al pianale di carico, vicino alla cabina. La paga che non ha ricevuto è il viaggio verso Agadez. La comitiva è variegata, uomini, donne e bambini in braccio alle loro mamme.
Stanno attraversando il deserto: “Un altro sole stava sorgendo. La luce dell’alba era diversa da quella degli altri giorni, più cupa, più gialla. Ora capivo: rifletteva il colore della sabbia del deserto”. Invano chiedono all’autista di fermarsi per bere e per sgranchire i corpi ormai fermi da troppo tempo nella stessa posizione. L’autista è costretto a fermarsi perché i fuggitivi sono assaliti da una banda di predoni che li derubano di tutto. Ripreso il viaggio, tutti si chiudono in un mutismo cupo e disperato. I bambini piangono. Osas ne prende in braccio uno e cerca di consolarlo.
Dopo una breve sosta, il viaggio riprende. Nel salire sul carro, Osas ha un taglio profondo alla gamba. Un ragazzo che sta seduto vicino a lui si toglie la camicia e la stringe forte intorno alla ferita. Il sangue cessa di uscire e il cuore inizia a battere più lentamente. “Il buio stava calando e il freddo stava prendendo il posto del caldo”. È lo sbalzo termico tipico del deserto. C’è il silenzio più totale: “Steso, con le mani sotto la testa e con gli occhi per aria, guardai il cielo sopra di me: le stelle, infinite e tanto grandi da sembrare vicinissime, davano quel poco di luce che permetteva di vederci intorno” (pag. 45). La comitiva viaggia per tutta la notte. Ad un’altra sosta, “Vedemmo quello che mai avremmo potuto immaginare e che gli occhi di un essere umano non dovrebbero mai vedere. La sabbia smossa aveva fatto affiorare l’orrore, a destra e a sinistra giacevano semicoperti i corpi straziati di esseri umani, adulti e bambini” (pag. 47).
La comitiva arriva finalmente ad Agadez con le strade piene di Hilux, adibiti per il trasporto delle persone, un vero e proprio lavoro e fonte di guadagno.
Uomini e donne girano per il mercato vestiti con il tradizionale abbigliamento Tuareg. Anche ad Agadez, Osas trova un nuovo padrone. Deve raccogliere datteri. Il denaro gli servirà per proseguire il viaggio fino a Tripoli. La sistemazione: “Un materasso per riposare adagiato su una vecchia brandina, un tavolino con una brocca d’acqua fresca, un cestino con pochi frutti e un piatto di Cuscus ogni giorno”. Con il poco denaro guadagnato riesce a pagare il viaggio che lo avrebbe portato a Tripoli, passando per Sebha e Dirkou, la rotta migratoria che congiunge l’Africa Centro – Occidentale con il Nord Africa.
Oltrepassate Sebha e Dirkou rimangono ancora 750 chilometri per raggiungere Tripoli. Giunti nella città libica, iniziano per tutti i migranti, compreso Osas, il trattamento disumano nei centri di detenzione libici: “Pur non avendo mai fatto nulla contro la legge, mi ritrovai assieme ad altri cento disperati come me in poco più di 80 metri quadrati in una specie di garage con piccole finestrelle alle quali erano state poste delle sbarre” (pag. 61). A Tripoli viene sbattuto in diverse carceri, ovunque riceve lo stesso trattamento: botte e torture per nessun motivo. Trova la forza per andare avanti solo invocando Dio. Rimane anche ferito da un punteruolo che una guardia carnefice gli conficca nel torace senza nessun motivo.
Nel Natale del 2014, quando è detenuto in un ennesimo carcere di Tripoli, conosce Emmanuel, anche lui nigeriano. Era stato costretto a lasciare la propria terra perché gli uomini di Boko Haram, mentre lui era nei campi a lavorare, “entrati nel villaggio, avevano dato fuoco alle case e alla Chiesa uccidendo sua moglie e tre bambini. Non era riuscito a convivere con quel dolore atroce e aveva scelto perciò di andare via per sempre” (pag. 68). Nonostante il peso della tragedia che porta con sé, Emmanuel gli si avvicina, dicendogli: “Fratello, oggi è Natale. Il Signore sia con te. Lo strinsi molto forte e, nonostante fosse più grande di me, capii che in quel momento dovevo fargli sentire tutta la mia vicinanza. Lui ne aveva proprio bisogno” (pp. 68- 69). È proprio in questa notte di Natale che Osas ha bisogno di raccogliersi per trovare la pace con se stesso: “Potevo sembrare un figlio ingrato che non aveva avuto rispetto dei propri genitori, scegliendo la via più facile. Non era così. Il viaggio iniziato mesi prima era stato fatto anche per loro. Sognavo, quando lo intrapresi, di trovare un lavoro in Europa, che mi avesse dato la possibilità di guadagnare faticosamente il denaro necessario, per comperare un piccolo negozietto alla mamma e per poter pagare la retta scolastica ai miei fratelli. Chiedevo troppo? (pag. 70).
Osas aveva frequentato per sette anni, ad Esan, la Baptiste Academy Uroni, ma era stato costretto ad interrompere gli studi perché la retta da pagare era troppo alta per le tasche del proprio babbo. Non aveva però mai abbandonato il desiderio di conoscere e di studiare.
In un giorno imprecisato, entra nel carcere, dove Osas è detenuto assieme ad altri compagni, un uomo. Non è un carceriere. Ha bisogno di braccia da lavoro. Deve costruire la propria casa. Ne sceglie alcuni, tra i quali anche Osas. Vengono portati in campagna nei dintorni di Tripoli. Il lavoro nel cantiere dura diversi mesi. Terminata la costruzione vengono caricati dal padrone sulla propria auto e portati presso un vecchio porticciolo: “La calma di quella notte mi dava serenità. La luna piene illuminava la battigia. Solo allora mi accorsi che pullulava di persone” (pag. 72). Sono altri emigranti, donne, uomini e bambini che aspettano la traversata in mare. Vengono divisi in gruppi di ottanta / novanta persone. Ad ogni gruppo viene dato loro un gommone da gonfiare. Tre gommoni partono quasi contemporaneamente, spinti al largo da una grossa moto d’acqua.
La traversata inizia di notte con il buio più assoluto. “Il nuovo giorno, annunciato dal sole che sta sorgendo come una palla di fuoco vomitata dal mare”, fa percepire a tutti la dimensione della situazione. Sono ottantanove anime abbandonate in un mare senza fine. Un bambino, preso dalle convulsioni, muore in braccio alla mamma che lo stringe a se, dopo “aver lanciato un urlo di dolore come una sirena assordante”(pag. 79). Ma il peggio deve ancora venire. Un uomo, in preda al panico, grida disperato, minacciando di lanciarsi in acqua per farla finita. Osas lo rincuora e gli dice di pregare anche per il bambino che non c’è più. L’uomo si calma e si abbandona sulle spalle di Osas in un pianto senza parole. Presto il gommone incomincia ad imbarcare acqua. La disperazione è sugli occhi di tutti. Solo la donna con il bambino in seno rimane immobile come una statua di pietra. Improvvisamente il gommone viene investito da onde anomale.
La salvezza viene da una nave della marina militare italiana al largo di Lampedusa. Vengono rifocillati con acqua, biscotti, the, gallette salate. “Il sole stava tramontando. Il buio ora non sembrava più cupo. La speranza e i sogni si erano riaccesi in quella notte. Qualcuno ebbe la forza di intonare una canzone” (pag. 88). La donna con il bambino morto, stretto in seno, stressata e sfinita, inizia a correre sul ponte. Cercano invano di fermarla, ma non riescono. Si lancia in acqua e “Il suo corpo attaccato al suo figlioletto era già scivolato nelle profondità del mare” (pag. 88). La traversata di Osas e dei suoi compagni di viaggio fino alla terraferma dura tre giorni termina nel porticciolo di Lampedusa. Tutti vengono sottoposti a visite mediche. Ad ognuno viene consegnato un braccialetto di colore diverso, verde se era tutto a posto, rosso se si riscontrava qualche malattia. Ad Osas viene dato il braccialetto verde. Il cuore batteva forte come quello di un leone, nonostante gli stenti, le botte e le condizioni malsane in cui era vissuto negli ultimi anni (pag. 91). L’11 agosto 2015, Osas lascia l’isola di Lampedusa su un autobus a due piani e inizia la propria vita in Italia.
San Martino di Tours divide con un povero metà della propria mantella militare in un gesto di solidarietà. “Anche noi – scrive Vito Carlo Mancino nella prefazione del libro– ci siamo trovati con mia moglie Diana, i nostri figli Davide e Maria Luisa nell’immediatezza di prendere una decisione su Osas che era in un limbo legislativo e, nella totale incertezza, non abbiamo dubitato un attimo e lo abbiamo accolto in casa” (pag. 8).
“Diana Montedoro, nata e cresciuta a Bari, ha sperimentato fin da piccola il senso di appartenenza a gruppi associativi. Sempre interessata alle problematiche sociali ha dedicato il suo tempo all’aiuto del prossimo, in particolar modo dei giovani. Seguendo lo spirito salesiano di don Bosco ha cercato di inculcare in loro il rispetto per la vita per essere buoni cristiani e onesti cittadini” (Quarta pagina di copertina). Le pagine del libro sono ricche di citazioni prese dal santo torinese.
Siware, nel linguaggio parlato in Esan, il villaggio dove è nato Osas, significa partire. Siware, il viaggio di Osas “è un libro che va letto e che va fatto leggere ai ragazzi, specialmente nelle scuole, affinché possa dare un’idea su ciò che davvero succede oltremare e perché non debbano essere avvelenati da ideali nazionalisti e xenofobi che sono pronti ad entrare nelle loro giovani menti” (Vito Carlo Mancino). •